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Pd, D’Alema: “Se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi do battaglia”

L’ex premier lancia la sua sfida: “Se nel Pd vince Bersani, non chiederò alcuna proroga e lascerò il Parlamento favorendo il rinnovamento. Ma se vince Renzi darò battaglia” – Dalla disputa generazionale il confronto può ora spostarsi su programmi, alleanze e prospettive: il vero banco di prova del Pd e delle prossime elezioni

Pd, D’Alema: “Se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi do battaglia”

Se vince Bersani, promotore del rinnovamento, favorirò il rinnovamento. Non chiederò alcuna proroga, lascerò il Parlamento, ma non l’impegno politico“. Parole sagge, quelle di Massimo D’Alema, affidate alla trasmissione televisiva “Otto e mezzo”, ma soprattutto (all’uso antico) ad un’intervista all’Unità. Parole che servono a confermare l’impegno a favore della candidatura del segretario Pierluigi Bersani alle prossime primarie, ma soprattutto a mettere in chiaro che non vengono certo dall’ex presidente del Consiglio ostacoli e resistenze al rinnovamento del gruppo dirigente del partito.

A patto però che questo rinnovamento avvenga nel rispetto di quella che è stata la storia non soltanto del Pd, ma di tutta la sinistra italiana: comunista, socialista, laica, cattolica e democristiana, che in quel partito si è ritrovata. Insomma (è questa la tesi di D’Alema e Bersani) il rinnovamento non è conseguenza dell’arrogante retorica di un giovane e disinvolto dirigente, che invoca e minaccia la “rottamazione”. Che brutta parola questa per la politica. Renzi si è offeso perché Michele Prospero sull’Unità l’ha catalogata come “fascistoide”, ma certamente “rottamatore” è quanto meno quasi sinonimo di “sfasciacarrozze”. Il rinnovamento di un gruppo dirigente è invece altra cosa ed è l’ossigeno della democrazia. E bene hanno fatto D’Alema e Bersani a spiegare che il problema non è la ricandidatura di questo o quel dirigente, bensì il rischio che il qualunquismo e l’antipolitica (effetti collaterali del berlusconismo), irrompano anche all’interno di partiti di solida storia democratica.

Insomma, la questione non è quella di mettersi o togliersi la minigonna (che peraltro ha una storia antica: Mary Quant la inventò alla fine degli anni sessanta, quando Renzi non c’era ancora e Bersani era un ragazzo) o di uno scontro tra vecchi e giovani, tra gerontocrazia e giovanilismo. Il problema è di riportare soprattutto le nuove generazioni alla politica e alla democrazia, a comprendere, che nonostante grillismi e renzismi, e nonostante Fiorito e Formigoni, Lusi e Penati, queste passano ancora una volta per i partiti, rinnovandoli sì, ma riconoscendo e conoscendo la loro storia che spesso è ed è stata una storia nobile.

Ecco quindi che ora Bersani e con lui D’Alema, Veltroni e gli altri, dovranno essere in grado di spostare l’attenzione del dibattito che accompagna le primarie da questa inutile disputa generazionale, a quella più impegnativa e più complessa, della politica: programmi, alleanze, prospettive. E’ impresa difficile, ma decisiva. Perché è soltanto su questo piano che è possibile coinvolgere cittadini ed elettori in un dibattito alto e concreto piuttosto che in devastanti risse interne. Le quali, è bene dirlo, alla fine a tutti possono portare vantaggi, meno che al Pd. Conclusione: il rinnovamento della politica e dei suoi gruppi dirigenti è questione che la politica, e quindi anche il Pd, non possono trascurare, anche per evitare l’insorgere e il diffondersi di inutili sfasciacarrozze. I gesti forti di Veltroni e D’Alema vanno in questa direzione e indicano una direzione di marcia anche ad altri dirigenti di lungo corso e lunga storia.

 

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