Il trionfo del Pd nelle ultime elezioni amministrative (17 a 0 sul Pdl con la riconquista di Roma ma anche di altre città di frontiera come Brescia e Treviso e il ritorno del sindaco Bianco a Catania già al primo turno) è andato probabilmente al di là delle previsioni e ha tonificato certamente un partito in precedenza fiaccato dalla “vittoria mutilata” di Pierluigi Bersani alle politiche di fine febbraio. Ma come sempre succede in casi del genere l’importante è saper vincere e cioè non vivere sugli allori ma trasformare il successo elettorale in un consolidamento della propria offerta politica.
E’ quello che succederà? I segnali che arrivano dal Pd sono per ora ambivalenti e contradditori. L’incontro di Firenze tra il premier Enrico Letta e il sindaco della città Matteo Renzi e l’abbozzo di un possibile patto generazionale all’insegna del rinnovamento sembrano un buon viatico. Ma molto meno lo sono gli scontri sulle regole in vista del prossimo congresso, i rancori bersaniani – questi sì personalistici – contro il fronte renziano, e i foglietti sulle nomine delle imprese pubbliche scambiati tra lo stesso Bersani e il nuovo segretario del partito Guiglielmo Epifani.
Piccinerie verrebbe da dire. Ma il punto vero che resta irrisolto è un chiarimento sulla collocazione e sulle reali prospettive strategiche del Pd. Che cosa dovrà essere in futuro questo partito nato dalla confluenza tra due apparati più che dalla sintesi di due culture e tradizioni politiche? Un partito di centrosinistra, come sembrano indicare Letta e Renzi, o un partito di sinistra come suggerisce Fabrizio Barca? Se non si chiarisce questo punto, anche a costo di scontri e lacerazioni interne, non si va da nessuna parte e la vittoria delle amministrative rischia di essere una rondine che non fa primavera. Se il Pd sceglierà di essere un partito di centrosinistra a forte impronta riformatrice e europeista è evidente che Letta e Renzi ne saranno gli alfieri naturali e che il complesso di inferiorità nei confronti della sinistra estrema (da Sel a Grillo) finirà in soffitta.
Non sarà una nuova Bad Godesberg ma sicuramente la forza della nuova leadership poggerebbe sulla spinta innovatrice e sulla discontinuità piuttosto che sulla semplice ossessione antiberlusconiana. Se, al contrario, dovesse prevalere l’idea di fare del Pd un partito di sinistra, nell’illusione di capitalizzare subito la frana grillina per rompere con Berlusconi e le larghe intese e ridiscutere gli impegni europei inseguendo le suggestioni di un partito di lotta più che di governo, è evidente che si aprirebbe un’altra partita nella quale tornerebbe ad affiorare il fantasma della scissione tra area centro-riformista del partito e ala radicale. Può anche darsi che per l’Italia due sinistre – una riformista e l’altra radicale – siano meglio di una paralizzata al suo interno da spinte contrastanti, ma la divisione del Pd sarebbe destinata a terremotare tutta la geografia politica che, al di là della legge elettorale che verrà, già vede all’orizzonte la spinta al declino del partito berlusconiano, l’agonia leghista e il possibile sfarinamento del Movimento 5 Stelle.
Il futuro ci dirà quale sia la sorte del Pd ma essendo la posta in gioco molto alta – e cioè la guida del Paese – chi osserva da fuori le vicende del partito nato dalla confluenza tra la Margherita e i Ds – può solo auspicare che il confronto interno, per aspro che sia, avvenga su chiare linee politiche piuttosto che sulle beghe e sulle gelosie personali.