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Pd al bivio: più riformismo o nostalgia dei Cinque Stelle?

Imagoeconomica

“La linea politica è stata condivisa e scelta insieme e sempre tutto ha avuto una bussola”, ha proclamato Nicola Zingaretti, aprendo i lavori della Direzione del 25 febbraio. A parole, tutto vero, ma che lo sia anche nella sostanza è alquanto arduo da sostenere.

In realtà la nascita del governo Draghi ha messo in moto un processo che sta scuotendo, con esiti al momento non prevedibili, le basi stesse del sistema dei partiti: dai 5 Stelle dilaniati da una situazione caotica a una Lega percorsa da tensioni sotterranee ma ugualmente visibili. E il Partito democratico, quanto a conflitti interni taciti o, più spesso, portati alla luce senza complimenti, non fa certo eccezione. Occupa, semmai, un posto di prima fila.

Una delegazione di soli uomini, scelta per rappresentare i democratici nel nuovo Esecutivo, ha fatto da detonatore; Cecilia D’Elia, Portavoce delle donne dem, ha denunciato questa grave ferita al principio della parità come risultato della soffocante presenza delle correnti nel partito. Ma un “Pd ostaggio delle correnti”, ha rincarato il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro, “rischia di sparire” (Repubblica,24 febbraio).

Matteo Orfini, già presidente del partito, parla invece di un partito precipitato in un autentico “lockdown politico”, a causa degli errori di conduzione commessi dall’’attuale segreteria. (Il Foglio,19 febbraio). Non è tutto. 

Si avverte un disagio diffuso che porta settori del Partito a un malcelato rimpianto per la mancata nascita del Conte-ter e a comportarsi come se il governo Draghi rappresenti una soluzione della crisi più subìta che realmente voluta.

Altri, all’opposto, vedono nel nuovo Esecutivo un’occasione decisiva per dare slancio all’europeismo e a un’azione modernamente riformatrice del Paese: quella che costituisce un connotato fondante, anche se largamente inattuato, del Partito democratico.

Sembra dunque venuta meno al Pd, malgrado le compiaciute parole di Zingaretti ricordate più sopra, proprio la bussola, cioè lo strumento indispensabile per affrontare questa drammatica fase della vita italiana. 

L’adesione unanime del partito all’appello del Presidente Mattarella, gesto necessario per sbarrare la strada al voto anticipato, è stata infatti di certo importante, ma non appare sufficiente per rendere comprensibile la strategia di lungo periodo che ora il Pd intende praticare. 

Una spia precisa del bivio di fronte al quale si trova è il serrato confronto che si è svolto nei giorni scorsi sulle colonne de Il Riformista fra Enrico Morando, storico sostenitore dell’idea di un Pd “casa comune dei riformisti italiani”, e Goffredo Bettini, che vorrebbe un Pd sempre più stretto in un asse con i 5 Stelle e Leu. Due linee che sottintendono impostazioni politiche e programmatiche assai diverse fra loro. Imboccare l’una o l’altra significa anche, per il Pd, caricare di un senso diverso il suo rapporto con il governo Draghi.

Come verrà sciolto questo nodo? Difficile saperlo dalla Direzione che si riunirà oggi, lunedì 1° marzo.

Qualche elemento in più potrà forse venire dall’Assemblea nazionale che il Pd ha in programma il 13 e 14 marzo. Ma la risposta vera giungerà solo con il Congresso che appare, ormai, un appuntamento irrinunciabile anche se non è possibile – con la pandemia imperversante – prevederne una data.

C’è perciò da augurarsi che le tensioni interne non facciano, frattanto, perdere di vista al Pd un compito che lo investe, insieme agli altri partiti della maggioranza. Quello che impone – accanto al dovere di sostenere il governo Draghi nel difficile impegno per mettere il Paese in sicurezza – anche di completare la “manutenzione istituzionale” imposta dall’esito del referendum del 20 settembre 2020 che ha dimezzato il Parlamento. Questo tema sembra uscito dall’agenda politica, eppure proprio l’emergenza sociale e sanitaria che stringe l’Italia lo rende di incalzante attualità.

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