L’Unione Europea si sta avvicinando alla fase finale di perfezionamento del nuovo Patto di Stabilità. Sono in corso i cosiddetti i triloghi, i negoziati comunitari a cavallo tra la mediazione politica e tecnocratica di Parlamento, Consiglio Ue e Commissione Europea. Sullo sfondo dei negoziati, a Bruxelles sono già osservabili le fibrillazioni di un’imminente tornata di elezioni europee che per la prima volta nella storia potrebbero sancire nuovi rapporti di forza all’interno del Parlamento Europeo. «Con l’avvicinarsi delle elezioni europee e la disattivazione della clausola di salvaguardia, è urgente portare a termine questo dossier e fornire chiarezza e prevedibilità alla politica fiscale», ha dichiarato Paolo Gentiloni, Commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni. «Il Patto doveva comunque tornare in vigore e la modifica dei Trattati era fuori discussione», osserva anche Fabrizio Pagani, oggi Senior Advisor Vitale & Co. e già sherpa e consigliere economico al G20 di San Pietroburgo al tempo del governo Letta.
Professor Pagani, al netto di alcune possibili limature il nuovo Patto di Stabilità è definito. Qual è il suo giudizio?
«Positivo, è stato migliorato per quanto possibile. Ownership nazionale della politica fiscale, valutazione caso-per-caso, orizzonti più lunghi per il consolidamento fiscale, realismo circa i livelli di debito pubblico, di fatto ben al di sopra del famoso 60%. In un certo senso si è creato un meccanismo simile al PNRR, con un negoziato da parte di ciascun Paese disegnato in base al proprio percorso di crescita e di riforme».
Qual è stato il piano di mediazione più complicato per il governo italiano?
«Credo che il governo abbia dimostrato il giusto realismo nel negoziato e ottenuto il possibile. Non vi sono state posizioni ideologiche, come invece è accaduto in altri casi».
A livello europeo, l’Italia dove sta trovando sponde politiche nelle interlocuzioni di ordine economico?
«Sicuramente vi sono Paesi con i quali l’Italia condivide più da vicino l’orientamento della finanza pubblica. Tuttavia, la mia impressione è che anche i Paesi cosiddetti “frugali” stiano capendo l’importanza degli investimenti, a partire da quelli in sicurezza e difesa. Vi sono minacce geopolitiche che rendono più flessibile anche chi ha fatto del rigore un principio generale di politica fiscale».
Il nuovo Patto prevede un décalage di riduzione del deficit per singolo Paese e non più sulla base di uno schema unico. Un elemento positivo per l’Italia?
«Sì, il think tank europeo Bruegel calcola che l’Italia, secondo le nuove regole, abbia un sentiero di consolidamento fiscale attorno al 0,5-0,6 % del Pil all’anno su un orizzonte di 7 anni. Si tratta di un obiettivo realistico, se ben gestito e con i tagli giusti, la crescita non dovrebbe troppo soffrirne».
Ma per l’integrazione europea si tratta di un passo indietro o in avanti?
«È un passo in avanti nella governance economica europea. Ne servono altri invece per avvicinarci all’unione fiscale, a cui credo tutti dobbiamo aspirare».
Un’attuazione del Patto per singoli Paesi potrebbe portare ad un’ulteriore frattura tra Paesi più e meno virtuosi in tema di finanza pubblica?
«Non se il Patto è applicato nella sua completezza. I Paesi con condizioni di partenza peggiori sono tenuti a presentare piani di riduzione di deficit e debito. L’idea è spingere i meno virtuosi a fare meglio con un approccio meno top down».
Gli aggiustamenti dovranno essere fatti in coerenza con gli scenari di crescita. Per l’Italia potrebbe essere un motivo di preoccupazione?
«Come detto, l’aggiustamento sarà su orizzonti relativamente lunghi, fino a 7 anni. Altrimenti il consolidamento richiesto all’Italia, ovvero portare l’avanzo primario al 3-4%, richiederebbe una correzione simile a quella del 2011-2012. Una correzione che allora frenò molto l’economia italiana».
I piani di attuazione del Patto potranno essere modificati in caso di elezioni. L’instabilità dei governi potrebbe aprire scenari non prevedibili sulla percezione dell’affidabilità dei conti pubblici?
«Dai primi anni Novanta al 2019, con l’eccezione della crisi del 2008, l’Italia ha tenuto avanzi primari positivi abbastanza consistenti, che non hanno risentito più di tanto del ciclo politico, in particolare dopo il 2011».
A regime ci dovrà essere un deficit strutturale dell’1,5% e non più del 3%. Un obiettivo in linea con i quadri futuribili della nostra crescita?
«Un Paese con crescita reale all’1%, inflazione al 2%, debito al 140% e tasso d’interesse sul debito al 3% ha bisogno di un avanzo primario importante per tenere il deficit a 1,5%. I problemi centrali sono dunque la crescita bassa e la dimensione del debito, che assorbe molto in interessi, appesantendo il deficit».
Da profondo conoscitore dei meccanismi di mediazione politica intergovernativa, qual è lo stato di potere negoziale dell’Italia oggi in Europa?
«In questi consessi, il potere negoziale è spesso una derivata della situazione economica in cui si trova il Paese. È bene che l’Italia continui a crescere, perché più grande è la nostra economia, più contiamo in Europa».