Le analisi storiche delle crisi del passato suggeriscono che queste siano state, alla fin fine, «un’opportunità di cambiamento e di reinvenzione o rigenerazione della democrazia». Cosa è accaduto e sta accadendo come conseguenza della crisi economica iniziata nel 2007 e che gli autori definiscono Grande Recessione? L’indagine svolta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo, che poi è diventata il libro “Come la crisi economica cambia la democrazia” edito da “il Mulino”, è volta principalmente a studiare la «crisi nella democrazia», nelle sue procedure e risultati, così come nei suoi contenuti, ovvero «nel mix di libertà ed eguaglianza che riesce a garantire».
Oggetto di studio sono stati i paesi del Sud Europa, quelli che con accezione negativa venivano indicati con l’acronimo Piigs, oggi diventato GIIPS: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. I medesimi ad aver risentito maggiormente degli effetti negativi della stessa crisi, come delle misure preposte per superarla, anche rispetto i paesi dell’Est, come per esempio Polonia e Repubblica Ceca, che hanno subito minori contraccolpi. Di sicuro, nella gestione della crisi «l’Unione Europea ha agito da concausa nell’accentuazione dei suoi effetti e nella sua durata». Una costellazione di situazioni che «ha messo in tensione il sistema di governance (dell’UE)», ma anche la coesione tra gli stati membri e, in un certo senso, «la stessa autocoscienza europea». In sintesi, l’Unione Europea ha rischiato «e rischia tutto’ora una vera e propria implosione».
La crisi ma, soprattutto, le misure imposte per superarla hanno agevolato la formazione e il successo elettorale di «nuovi imprenditori politici e formazioni», nonché il discredito di quelli al governo. La crisi economica, sottolineano Morlino e Raniolo, ha ingigantito tendenze latenti che erano già presenti nei sistemi partitici e nei modelli di relazione tra cittadini e istituzioni. Il declino dei partiti può anche essere letto come «declino della legittimità dello stesso canale di rappresentanza elettorale-territoriale», con la conseguenza che cittadini ed élite «cercano altre strade per trasmettere le loro domande».
La maggiore partecipazione sviluppatasi negli anni successivi alla crisi è venuta caratterizzandosi per il maggior peso delle posizioni politiche anti-establishment, dell’opposizione alle politiche anti-austerità e per atteggiamenti contrari all’Unione Europea. In poche parole, la partecipazione «è diventata sempre più radicale e di protesta».
Nuovi «attori partitici rilevanti» che hanno minacciato in tre casi su quattro direttamente il controllo del governo e, in un caso, conquistandolo effettivamente.
I partiti e movimenti indicati come di protesta oggetto dell’indagine sono:
• Syriza: coalizione della Sinistra Radicale in Grecia.
• Movimento Cinque Stelle in Italia.
• Podemos in Spagna.
• Livre, Partido da Terra e Partido Democrático Republicano in Portogallo.
• Chrysi Avgi (Alba Dorata) in Grecia.
• Lega in Italia.
• Ciudadanos in Spagna.
Il caso particolare del Portogallo dimostra come gli elettori avrebbero anche potuto scegliere di adottare «atteggiamenti di alienazione o semplicemente indifferenza e apatia».
Questi partiti si definiscono e sono percepiti dall’opinione pubblica come partiti di protesta. Tutti, tranne uno, hanno avuto successo di recente, ma solo alcuni sono partiti genuinamente nuovi. Tutti, infine, vengono considerati populisti o neo-populisti. Nel complesso «è come se gli elettori del Sud Europa fossero diventati più sensibili alla delusione». Nelle quattro democrazie analizzate, «ma in realtà non solo in queste», si è assistito alla crescita inusitata di un’offerta politica capace di canalizzare la protesta e il risentimento degli elettori. «Tali trasformazioni non necessariamente devono essere considerate come un rischio per la democrazia», anzi potrebbero essere considerati segnali del fatto che «i regimi democratici hanno un’elevata flessibilità e resilienza alle sfide esterne».
Non tutti i partiti nuovi sono genuinamente tali, quelli che lo sono rappresentano degli «outsider che non sono il prodotto delle tattiche e delle dinamiche parlamentari» e perciò «costituiscono una minaccia per i partiti tradizionali». Seguendo questa logica si può facilmente comprendere come un elemento chiave di questi nuovi partiti sia «di presentarsi quali partiti anti-establishment» e, in un certo senso, come «partiti anti-partito». Da questo punto di vista «il modello paradigmatico di un partito genuinamente nuovo è probabilmente rappresentato dal M5S in Italia e da Podemos in Spagna».
Per quanto riguarda la rappresentatività sociologica, la classe politica del M5S è caratterizzata dalla giovane età. I giovani deputati (uomini e donne), compresi quelli di Podemos, sono «altamente istruiti».
Quello che traspare da questi dati è l’attivazione di «un cleavage generazionale prima latente nella politica delle democrazie europee» e che sta alla base della «rivolta degli elettori che ormai sembra caratterizzare le elezioni delle democrazie occidentali». Tale linea di divisione si sovrappone e si intreccia «con il cleavage esclusi-garantiti o vincitori-perdenti della globalizzazione».
La politica di protesta «è strutturalmente esposta alla delusione degli elettori» e ciò spiega la volatilità delle fortune elettorali e «la necessità del radicalismo come strategia competitiva e comunicativa». Non si tratta solo di «ipocrisia politica» o di cinismo dei leader. Innanzi tutto, «l’istituzionalizzazione organizzativa introduce nuovi vincoli interni ed esterni ai quali il partito deve adattare anche i propri obiettivi».
Come aveva già opportunamente evidenziato Stein Rokkan, all’interno di ogni democrazia operano due canali di influenza: «Il canale elettorale-territoriale e il canale corporativo-funzionale». Il primo è caratteristico della «politica partigiana», nel secondo invece prevalgono «i gruppi di interesse e gli attori economici». Le quattro democrazie oggetto dell’indagine di Morlino e Raniolo si sono generalmente caratterizzate per «una ipertrofia del canale elettorale-territoriale», aspetto questo centrale «specialmente nel caso italiano», e mostrano una relativa debolezza del canale funzionale. Tale asimmetria tra i due canali è stata «favorita dall’assenza di un ruolo regolativo dello Stato e dalla sua permeabilità agli interessi settoriali». Non a caso si è parlato, proprio in relazione all’Europa del Sud, di Stato informale (Sotiropolus 2004), di deriva distributiva (Ferrera 2012), di neo-caciquismo (Sapelli 1996) e, in termini più neutri, di gatekeeping partitico (Morlino 1998).
Gli autori sottolineano come vada sempre ricordato che «la democrazia non è solo la forma di governo di uno Stato, ma anche un meccanismo di regolazione o di governance di una certa struttura socio-economica che in Occidente è una qualche variante dell’economia di mercato o del sistema capitalistico». La questione diventa «il ruolo che in tali sistemi economici e sociali hanno avuto e hanno lo Stato e le istituzioni della rappresentanza politica». La varietà di relazioni Stato/economia che contraddistingue i casi analizzati funge da «variabile interveniente», nel senso che «definisce un set di condizioni (per lo più istituzionali) che rende i paesi del Sud Europa più vulnerabili agli shock esterni», aggravando al contempo gli effetti della recessione e rendendo «meno efficace il management della crisi». Il tutto con le dovute variabili e differenze tra i vari Paesi.
Nei movimenti di protesta temi materialisti (sicurezza economica, inflazione, disoccupazione) e post-materialisti (partecipazione, democrazia diretta, auto-realizzazione, beni comuni) hanno finito per sovrapporsi e mescolarsi. Tale ibridazione potrebbe costituire, nell’opinione degli autori, il punto di contatto tra diversi movimenti che nell’ultimo decennio hanno fatto parlare di un grande «ciclo di protesta transnazionale» che ha investito l’Europa, gli Stati Uniti, il Cile e il Brasile, il Nord Africa e anche Hong Kong. Una sorta di «crisi di legittimità delle democrazie avanzate».
Nel caso dei paesi oggetto d’indagine molto hanno inciso le politiche governative come anche e soprattutto quelle del governo centrale. Il processo di europeizzazione ha determinato «due effetti perversivi».
Ha alimentato un nuovo conflitto che ha inciso sulle relazioni tra i paesi appartenenti all’area euro e al di fuori di essa, tra paesi forti e paesi deboli all’interno dell’area euro, tra paesi forti nella medesima area. Quando si prendono in considerazione le politiche di austerità, «la realtà è stata quella di democrazie senza scelta», con le principali riforme fiscali, di bilancio, della pubblica amministrazione e del lavoro decise da attori esterni e implementate da attori interni.
«Il vero meccanismo innescato dalla crisi è la catalizzazione», mentre la componente di «agenzia della democrazia» si è adattata alla nuova situazione di delegittimazione, con tutto il carico di azioni, trasformazioni e conseguenze che ne sono derivate.
La ricerca sul campo condotta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo nei quattro paesi oggetto d’indagine (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) è stata finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica (Protocollo n° 2010 WKTTJP).
Bibliografia di riferimento
Leonardo Morlino, Francesco Raniolo, Come la crisi economica cambia la democrazia. Tra insoddisfazione e protesta, ilMulino, 2018. Traduzione di Valeria Tarditi dall’edizione inglese originale The Impact of the Economic Crisis on South European Democracies, edito in Gran Bretagna da Palgrave Macmillan e in Svizzera da Springer International Publishing AG.
Biografia degli autori
Leonardo Morlino è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Centro di Studi sulle Democrazie e Democratizzazioni alla LUISS di Roma.
Francesco Raniolo è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria.