Nel suo discorso all’Assemblea del PD Enrico Letta ha, a sorpresa, rilanciato un tema da molto tempo ormai assente dal dibattito e apparentemente dimenticato anche dal Sindacato: la partecipazione dei lavoratori alle decisioni e agli utili d’impresa. Il modello di partecipazione che Letta ha in mente è quello del mitbestimmung tedesco, la formula classica del capitalismo renano, come lui stesso dichiara nel sui recente libro “Ho Imparato”.
In effetti il modello renano, introdotto nella Repubblica Federale nel 1952 e riformato nel 1976, è intuibilmente una delle basi del successo della manifattura tedesca, anche se Andrea Garnero sottolinea che “i risultati degli studi disponibili non sono in grado di fornire argomenti convincenti sul nesso causale e comunque non evidenziano nemmeno una chiara correlazione tra la presenza di rappresentanti dei dipendenti a livello di consiglio di amministrazione o sorveglianza e le prestazioni aziendali”. Tuttavia lo stesso Garnero fa notare che “la rappresentanza dei lavoratori a livello di consiglio di amministrazione o gestione non è una forma di contrattazione collettiva, ma può tuttavia contribuire a rafforzare la voce dei lavoratori e il loro potere contrattuale. Soprattutto, potrebbe contribuire a migliorare la cooperazione tra le parti”.
Oltre ai notevolissimi risultati dell’industria tedesca in termini di produttività, la formula partecipativa ha permesso che le dure riforme introdotte da Schroeder quando l’economia tedesca era la “grande malata d’Europa” fossero attuate senza provocare un conflitto sociale. E questo, per l’Italia, potrebbe già essere una buona ragione per praticare un sistema cogestionario (o di codecisione, come si dice da noi per non urtare alcune suscettibilità politiche e sindacali). Negli anni questa suggestione c’è stata, promossa soprattutto dalla UIL dai tempi della Segreteria di Benvenuto. Tuttavia non ha mai avuto un successo che andasse oltre i seminari e i convegni. Probabilmente perché la mitbestimmung non è una sede di contrattazione ma di codeterminazione, fondata su due pilastri: un Consiglio Esecutivo (CdA) e un Consiglio di Vigilanza, dove son rappresentati azionisti e lavoratori.
I due organismi sono istituiti in forza di legge, che ne determina anche composizione e funzioni. probabile che questo sia stato vissuto come un ostacolo dal Sindacato Italiano che ha sempre avuto un rapporto difficile con la legislazione, ammessa in sostanza solo quando è “di sostegno” alla contrattazione, e soprattutto molto attento a preservare un modello di contrattazione collettiva vincolante e centralizzato. In poche parole è stato difficile legare il potere alla responsabilità. D’altra parte, senza sostegno legislativo, i (pochi) esperimenti tentati son naufragati di fronte all’indisponibilità delle parti sociali a ridimensionare le relazioni puramente negoziali in favore di un rapporto più esplicitamente cooperativo.
Va ricordato il Protocollo IRI, che negli anni 80 istituiva per tutto il gruppo, a livello di singole aziende e gruppi, un sistema di informazione/consultazione preventiva, che riconosceva teoricamente alcuni poteri di interdizione ai Consigli Paritari di Consultazione. Fu abbandonato abbastanza presto, soprattutto perché era vissuto come un laccio procedurale burocratico sia dalle imprese che dai sindacati, molto più a loro agio a tavoli esplicitamente negoziali ai quali far valere i rapporti di forza.
Non che le relazioni sindacali siano necessariamente di natura trogloditica: la responsabilizzazione dei lavoratori e il loro coinvolgimento nelle scelte d’impresa è sempre più frequente, in parallelo con il diffondersi della contrattazione aziendale, e in particolare si è concretizzata negli accordi sui Premi di Risultato, fortemente incentivati dalle defiscalizzazioni e decontribuzioni istituite dai successivi governi.
In effetti i Premi di Risultato, anche nella versione sempre più diffusa del welfare aziendale, determinano nelle imprese un clima molto più collaborativo e favorevole alle innovazioni. Sono in realtà l’unica pratica concreta di tipo partecipativo che si sia sviluppata in Italia. Tentativi sono stati avanzati sia in direzione dell’inclusione di rappresentanti dei lavoratori negli organismi societari: Alitalia e altri, Eni (era addirittura previsto dallo Statuto), senza che ciò determinasse sostanziali cambiamenti nelle relazioni industriali.
Recentemente Stellantis aveva formalmente riservato due posti ai rappresentanti dei lavoratori (ipotesi rinviata alla futura scadenza dell’attuale board), anche a causa delle divergenze insorte tra le organizzazioni sindacali in relazione alle modalità di designazione della rappresentanza e al coinvolgimento diretto dei dipendenti. Non maggiormente significativa, se non per i benefit finanziari dei lavoratori coinvolti, le esperienze di azionariato dei lavoratori. L’elargizione di azioni ai dipendenti (modello ENI anni ’80) è stata octroyeè, e non vissuta dai lavoratori come un’opportunità di diventare soci attivi dell’azienda; il più delle volte si sono concluse con la vendita delle azioni da parte dei dipendenti. In generale è mancata completamente la volontà da parte del sindacato di organizzare gli azionisti-lavoratori come forza di pressione in azienda.
Altra cosa sono le esperienze di imprese in crisi acquisite e risanate dai dipendenti che il più delle volte si costituiscono in cooperative. Queste realtà si avvicinano al modello assai diffuso negli Stati Uniti di ESOP (Employee stock ownership plan) che si avvale di forti incentivi fiscali. Il numero di queste aziende è limitato, anche se si tratta di situazioni particolarmente importanti che meriterebbero uno sforzo di conoscenza e di approfondimento in primo luogo da parte delle stesse organizzazioni sindacali.
Nella sostanza la prassi di partecipazione oggi passa quasi esclusivamente attraverso il rapporto diretto tra impresa e sindacato aziendale, anche nei casi più avanzati in cui la contropartita della collaborazione consista nella distribuzione di azioni ai dipendenti (Luxottica e Campari, non a caso due multinazionali). E soprattutto non è più di una pratica negoziale, attivata o no a seconda della volontà delle parti sociali e dei loro rapporti. Naturalmente si può prendere atto che la cultura delle Relazioni Industriali in Italia non consente di più, e scegliere di potenziare e allargare l’esperienza già esistente. Se però si vuol fare un salto di qualità è inevitabile porsi il problema di passare da una prassi puramente contrattuale e volontaria a un sistema che abbia un fondamento legislativo e istituisca un minimo di diritti e obblighi.
E questo anche in vista delle mutazioni che gradualmente (ma non molto lentamente) vengono introdotte nel mondo dell’impresa da Industry 4.0 e dai criteri ESG (Environment Social Governance): la struttura della contrattazione collettiva dovrà diventare più flessibile, integrativa e sussidiaria rispetto a programmi di coinvolgimento di determinate professionalità e a modalità di erogazione della prestazione lavorativa non più misurabile con la strumentazione di “tempi e metodi”; i criteri ESG obbligheranno le imprese a inserire nelle proprie policies obiettivi ambientali e sociali, e in qualche modo a rappresentare questi interessi nella propria Governance. Sono novità difficilmente affrontabili con i tradizionali strumenti della contrattazione collettiva, e che suggeriscono l’esigenza di affiancarle strumenti di governance che consentano al sistema-impresa di individuare policies adeguate e condivise.
Non v’è dubbio che un intervento legislativo in questo senso sarebbe necessario anche per impedire che il sistema di Relazioni Sindacali finisca per sfarinarsi davanti alla nuova complessità dell’organizzazione produttiva e delle professionalità. E c’è da augurarsi che Letta, con tutte le opportune gradualità e cercando il consenso delle parti sociali, voglia procedere in questo senso e realizzare una riforma di portata storica. Il che, tra l’altro, sarebbe l’occasione per le Organizzazioni Sindacali dei Lavoratori e degli Imprenditori di ripensare a un sistema contrattuale che sempre più stenta a rappresentare la realtà dell’interazione tra gli interessi, e ad assumersi la responsabilità di affrontare l’innovazione piuttosto che richiudersi nella difesa delle tutele acquisite dalle generazioni precedenti.
°°°°L’autore fa parte della Fondazione Anna Kuliscioff