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Partecipate: non sempre la scelta dell’amministratore unico è la migliore

Il riordino e la riduzione delle società partecipate volute dal Governo sono sacrosante ma la scelta generalizzata dell’amministratore unico solleva molti dubbi: in alcuni casi è saggia ma in altri può favorire una maggiore politicizzazione – Bisogna scegliere caso per caso basando le nomine sul merito e sull’indipendenza anziché sulla fedeltà politica

Partecipate: non sempre la scelta dell’amministratore unico è la migliore

“Cambiare il meccanismo del funzionamento dello stato per aumentare la competitività del paese” questo è l’obiettivo che si è posto il governo con la Riforma della Pubblica Amministrazione. Una riforma che il premier intende implementare nel corso del 2016, con i primi decreti attuativi da approvare a metà mese. 

Tra le norme più urgenti, vi è quella sul riordino delle società partecipate dalle Regioni e dagli Enti locali ma anche dalle amministrazioni centrali (ad esempio Consip, Sogei, Invimit, Sogin, Anas, Invitalia). Il governo intenderebbe razionalizzare l’universo delle controllate attraverso la cancellazione di alcune – le scatole vuote o le società che non hanno depositato bilanci negli ultimi anni -, e la fusione di altre – quelle prive di dipendenti o in rosso da diversi anni. Lo scopo è quello di passare dalle attuali settemila a circa mille in pochi anni. Sono previsti, inoltre, controlli rafforzati, tagli agli stipendi e azioni di responsabilità per danno erariale, patrimoniale e non patrimoniale nei confronti dei manager.

La novità più attesa è sicuramente la norma che consente di tagliare le poltrone. La stretta sulle partecipate dovrebbe includere, infatti, l’annullamento di tutti i consigli di amministrazione, sia a livello locale che nazionale. Niente più CdA con schiere di consiglieri talvolta anche superiori al numero dei lavoratori, bensì un amministratore unico, salvo – ovviamente – eccezioni decise per decreto. Questa misura, se verrà confermata, lascia però perplessi, per due ordini di motivi.

In primo luogo, le società a partecipazione pubblica si differenziano per dimensioni e obiettivi. Pertanto, se per alcune l’azzeramento del CdA può essere appropriato, per altre, invece, la mancanza di collegialità nelle decisioni può rivelarsi un limite nell’attività di gestione. Applicare la stessa norma a tutte le partecipate rischia, quindi, di penalizzare quelle con una “mission” particolare o con dimensioni di rilievo. Nelle aziende private, infatti, sono sostanzialmente quelle medio-piccole (spesso a gestione familiare) che nominano un amministratore unico che, poi, spesso coincide con l’azionista. 

Anche nel settore pubblico, e qui veniamo al secondo punto, con un amministratore unico vi è il rischio di una concentrazione dei poteri, perché a nominarlo sarà la politica locale o nazionale. Diventerà, quindi, più difficile, in assenza di altri consiglieri di amministrazione, garantire una reale separazione tra l’attività di indirizzo che spetta all’azionista – in questo caso lo Stato – e quella di gestione e controllo che spetta all’amministratore. Si ritornerebbe, quindi, ad un sistema politicizzato e inefficiente. Ciò che andrebbe cambiato, quindi, non è tanto il numero degli amministratori – che sicuramente in alcuni casi va ridotto -, quanto il metodo di nomina: merito e indipendenza al posto della lealtà politica. 

Per aumentare la competitività del paese, – gli ultimi dati Eurostat collocano l’Italia in coda alle classifica -, anche attraverso un settore pubblico più efficiente, i colpi di spugna rischiano di non essere la strada giusta. Si è proceduto in questo modo già con la norma – in vigore dallo scorso anno – che vieta ai settantenni di sedere nei consigli di amministrazione di società pubbliche per oltre un anno e previo compenso. In questo caso, si è privato l’organo che gestisce la società della “diversità” – fondamentale per costruire valore. Nel caso dell’amministratore unico, se la norma venisse approvata in modo generalizzato, ci si priverebbe della “collegialità”, elemento che contribuisce ad arricchire il processo decisionale. 

In sostanza, nel caso dei consigli di amministrazione delle società partecipate, tagliare non necessariamente è garanzia di maggiore efficienza. Peraltro questi tagli non si tradurrebbero neanche in una riduzione della spesa pubblica perché, come precisato dal governo, eventuali risparmi andrebbero ai Comuni

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