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Parità di genere e bizzarrie linguistiche: il Presidente o la Presidente, ministro o ministra, vigile o vigilessa?

Il glottologo Daniele Vitali spiega – per iniziativa di goWare – alcune scelte linguistiche della nuova classe di governo. Si dice il Presidente o la Presidente? Meloni ha scelto la prima strada. Le donne di sinistra vogliono essere chiamate ministre e quelle di destra invece ministri ma la lingua italiana non funziona così

Parità di genere e bizzarrie linguistiche: il Presidente o la Presidente, ministro o ministra, vigile o vigilessa?


Mentre la prima donna Presidente del Consiglio vuol essere chiamata con un titolo maschile, le sue colleghe si dividono sulla femminilizzazione delle cariche elettive: le donne di sinistra vogliono esser chiamate ministre, quelle di destra ministri, ma la lingua italiana non funziona così, e le vigilesse e le vigili fanno lo stesso mestiere.

Le circolari di Palazzo Chigi e la disforia di genere

Dal 22 ottobre scorso anche noi italiani abbiamo marcato un’importante tappa nella lotta per la parità fra i sessi, perché finalmente a capo del governo c’è una donna. Anzi, no.

“Per opportuna informazione si comunica che l’appellativo da utilizzare per il presidente del Consiglio dei Ministri è: ‘Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Giorgia Meloni’”, recita una nota ufficiale di Palazzo Chigi. Poco dopo, la sbalorditiva circolare è stata corretta con la richiesta di togliere la dicitura “Signor”, facendo però salvo il resto.

Qualcuno ci ha scherzato sopra dicendo che ci trovavamo di fronte a un caso di disforia di genere, ma in realtà l’uso del maschile per l’alta carica era prevedibile: è da tempo che fra le donne in politica è in corso una battaglia ideologica, per cui durante i governi di centrosinistra si parla di “ministra della Sanità” (Rosy Bindi) e nei governi di centrodestra di “ministro per la Gioventù” (la stessa Giorgia Meloni).

Il presidente donna che cannoneggiava gli svizzeri

Per la verità, non sempre si è trattato di una guerra tra sole donne, poiché spesso ad essere cannoneggiata è stata anche l’altra metà del cielo.

Ricordo un imbarazzante episodio di vera e propria maleducazione avvenuto anni fa all’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, nel corso di una conferenza sull’uso della lingua italiana nei documenti amministrativi: c’erano il presidente dell’Accademia della Crusca, diversi rappresentanti delle nostre istituzioni, vari silenziosissimi esponenti del governo cantonale del Ticino, e poi i funzionari europei, in particolare quelli in forza presso il servizio di traduzione della Commissione.

Uno di loro presentò la signora da poco chiamata a presiedere l’Istituto Italiano di Cultura secondo le norme dei manuali interni: trattandosi di una donna, disse “la presidente” e lei, fresca di nomina da parte del governo Berlusconi bis, rispose tutta piccata: “Dunque, siccome siamo qui per parlare dell’italiano, parliamolo bene questo italiano, io sono IL presidente, non LA presidente”.

Il malcapitato si affrettò a cambiare discorso, ma in cuor suo si deve esser chiesto cos’avesse sbagliato: il manuale in sua dotazione diceva che, poiché la parola “presidente” è un participio presente e come tale termina in ‑e, va bene sia per il maschile che per il femminile, quindi si deve evitare la forma suffissata “presidentessa” e limitarsi ad accordare l’articolo in base al genere della persona che ricopre la carica. Il tapino aveva ottemperato con zelo a un’indicazione di buon senso, e per tutta risposta si era visto redarguire con furia da una che voleva esser chiamata come se fosse un uomo.

Quando le vigili erano “vigilesse”

Potrà sembrar strano che si debba normare la materia, non importa se attraverso un manuale ad uso interno dei traduttori italiani oppure in base a una circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal momento che la questione è stata (quasi) risolta dalla comunità dei parlanti. Il fatto è che non è sempre stato così, e ancora c’è chi si attarda in strani distinguo, come abbiamo visto. Facciamo dunque un salto indietro nel tempo.

Quella per la parità è una lunga marcia, non ancora conclusa ai giorni nostri e passata per tappe simboliche come il suffragio femminile nel 1946, l’abrogazione del reato di adulterio nel 1968, la legge sul divorzio del 1970, la riforma del diritto di famiglia nel 1975, la legge sull’aborto del 1978 e ancora l’abolizione del “delitto d’onore” nel 1981, anno in cui i nostri legislatori, colti da subitaneo empito rivoluzionario, pensarono che dopotutto chi trucidava la moglie, la figlia o la sorella per comportamenti contrari all’onore della famiglia non meritasse di essere premiato con attenuanti e sconti di pena.

In tutto questo tempo le donne hanno cominciato a svolgere impieghi e professioni che fino a quel momento erano stati appannaggio degli uomini, creando a volte un iniziale imbarazzo, anche linguistico. Vedere di punto in bianco le donne in divisa da vigile urbano, o paludate in una toga da avvocato o da giudice, per esempio, indusse quella parte di popolazione maschile che si sentiva spodestata a coniare termini come “vigilessa”, “avvocatessa” e “giudichessa”, cui possiamo aggiungere “sindachessa”, in un florilegio di suffissi femminilizzanti superflui che prestano il fianco a più di un sospetto di canzonatura sessista.

Non c’è bisogno di “essa”

A suo modo, anche “presidentessa” è un po’ discutibile, per il motivo sopra spiegato. Voi dite “la discente, la docente, l’inserviente” oppure “la discentessa, la docentessa, l’inservientessa”? E che effetto vi fa questa seconda serie, se non quello di una patente presa per i fondelli?

Certo, in italiano abbiamo “professoressa” e “dottoressa”, che fanno parte da quando ci ricordiamo del linguaggio corrente e non hanno alcun retrogusto canzonatorio, ma resta il fatto che, secondo la regola della -e sopra enunciata, “vigile” è un aggettivo che vale per entrambi i sessi, come “forte, agile, debole, incline, proclive”, e dunque lo stesso uso si può applicare quando tali aggettivi vengono sostantivati: in fondo, tutti diciamo “la colpevole”, non “la colpevolessa”.

Ebbene, “giudice” funziona come “vigile”, sempre secondo la regola della –e, e del resto credo non sfugga a nessuno l’intento caricaturale della parola “giudichessa”, ricalcata su “sindachessa” ma la cui vera allusione profonda sono i grotteschi e favolistici “orchessa” (la moglie dell’orco) e “dragonessa” (il drago femmina). Se poi si pensa che un tempo, tra i frequentatori delle osterie, era comune riferirsi alle mogli presuntamente autoritarie con gradi militari del tipo “il sergente” o “il capitano dei dragoni”, risulta evidente che “giudichessa” è un modo sottile per contestare, in cerchie rigorosamente maschili dove si sia vuotato un bicchierino in più, l’autorevolezza del ruolo di giudice quando ricoperto da una donna.

La questione è solo apparentemente più intricata per una minoranza di parole.

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