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Paolazzi (REF): “La manovra di bilancio non sarà una passeggiata”

INTERVISTA A LUCA PAOLAZZI, economista e Senior partner di REF Ricerche – Se il nuovo Governo vorrà puntare davvero alla crescita, dovrà fare scelte politicamente molto coraggiose: abolire Quota 100 e ripensare il bonus 80 euro e il Reddito di cittadinanza per spingere gli investimenti e tagliare il cuneo- Chi avrà la forza di farle?

Paolazzi (REF): “La manovra di bilancio non sarà una passeggiata”

Se nascerà davvero un Governo in grado di evitare le elezioni anticipate, la definizione della manovra di bilancio sarà sicuramente uno dei banchi di prova più impegnativi, anche se il successo della fatturazione elettronica garantirà un maggior gettito fiscale. Ma se la manovra non dovrà servire solo a mettere a posto i conti pubblici ma dovrà essere il cuore di una politica economica che ponga le basi del rilancio della crescita, la partita da giocare “sarà politicamente tutt’altro che una passeggiata”. E’ quanto sostiene, in questa intervista a FIRSTonline, Luca Paolazzi, già Direttore del Centro Studi di Confindustria e oggi senior partner di REF Ricerche, uno dei centri più accreditati di analisi e ricerca economica. Della manovra del nuovo Governo il rilancio degli investimenti e il taglio del cuneo fiscale e contributivo dovranno essere i capisaldi, ma per fare un salto di qualità occorrerebbero scelte politicamente molto coraggiose: dall’abolizione di Quota 100 per le pensioni al ripensamento del bonus da 80 euro e del Reddito di cittadinanza. Ecco perchè.

Se nascerà un Governo non solo di garanzia elettorale ma di più ampio respiro, la nuova manovra bilancio sarà il suo primo banco di prova ma, prima ancora di definirne i contenuti, qual è il contesto congiunturale in cui essa si colloca? Di continua stagnazione o di probabile recessione? 

“È molto raro prevedere tempistica e intensità delle recessioni. Certo, prima o poi si verificano e oggi ci sono molte condizioni perché ciò accada. Ma la stagnazione, intesa come un incremento molto piccolo del PIL mondiale, rimane l’esito più probabile. Comunque, sicuramente dobbiamo fare i conti con un contesto molto fragile e difficile.

È un contesto fragile, perché le grandi locomotive mondiali, ossia Stati Uniti, Cina, Giappone e Germania, danno tutte segnali di affaticamento e di indebolimento della crescita, pur con i dovuti distinguo quantitativi e qualitativi, cioè  riguardanti la composizione e la velocità della crescita in ciascuna di esse. Un rallentamento sincronizzato significa che gli impulsi negativi di domanda vengono tramessi dall’una all’altra economia e finiscono così per amplificarsi. Quel che è peggio è che non cessa di agire la causa principale e comune dell’inattesa e rapida frenata mondiale, che è iniziata nei primi mesi del 2018; anzi, casomai, quella causa si è accentuata: la guerra commerciale, che ha creato una tale incertezza da bloccare e invertire l’espansione degli investimenti, si è ulteriormente avvitata e rischia di tramutarsi in guerra valutaria, di cui si è avuto un assaggio con l’accenno di svalutazione pilotata dello yuan. 

È anche un contesto difficile perché le banche centrali hanno munizioni decisamente più scarse di quelle di cui disponevano undici anni fa, quando la crisi finanziaria deflagrò e si tramutò in una violenta contrazione economica. I tassi di interesse sono ai minimi storici e i mercati hanno già scontato le misure espansive che potrebbero venire adottate. Bisognerebbe allora mettere in campo robuste misure espansive di politica di bilancio, ma gli spazi sono limitati e concentrati in pochi paesi. Perciò la politica economica è singolarmente mal attrezzata per fronteggiare una eventuale recessione. 

Questo è il quadro con cui deve fare i conti l’Italia. Che ormai da oltre vent’anni è ammalata di lenta crescita, per cui se il ciclo mondiale starnutisce noi ci prendiamo la polmonite”.   

I venti di recessione che affiorano in Germania e forse addirittura negli Usa con l’inversione della curva dei rendimenti dei bond sono il segno che il ciclo espansivo sta finendo un po’ in tutto il mondo o la conferma che forse non ha torto Larry Summers quando mette in guardia da una possibile stagnazione secolare? 

“La stagnazione secolare non è un’ipotesi di scuola, ma una realtà con cui dobbiamo fare i conti. Declino demografico e nuove tecnologie meno fertili di guadagni di produttività abbassano il potenziale di crescita dell’economia mondiale. Teniamo poi anche conto che i postumi della crisi finanziaria non sono stati ancora digeriti. Dunque, il mondo avanza lungo un trend di sviluppo meno rapido di un tempo. Ecco perché nelle fasi positive del ciclo l’espansione è più modesta di qualche anno fa e la stagnazione o addirittura la recessione più frequente. I mercati obbligazionari leggono nei dati congiunturali che il picco del ciclo è alle spalle e si aspettano che le banche centrali agiscano preventivamente; trovando conferma negli annunci e nei provvedimenti dei banchieri centrali. Ci sarebbero opportunità enormi: pensiamo alla questione ambientale, che richiederebbe massicci investimenti per abbattere rapidamente le emissioni di gas serra; ma ancora non si è deciso come finanziarli”.   

Per l’Italia la possibile recessione tedesca è solo una cattiva notizia perché frenerà anche il nostro export o può diventare positiva se Berlino si convincerà a tornare la locomotiva europea sia moltiplicando gli investimenti interni che addolcendo la politica economica  europea e archiviando definitivamente l’austerità? 

“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che la Germania si converta al pensiero keynesiano, abbandonando la filosofia sottostante alla condotta rigorosa dei conti pubblici. Ma mettendo da parte le riflessioni culturali e filosofiche, è chiaro che anche a Berlino vale il detto a estremi mali estremi rimedi. Il ministro delle finanze ha già annunciato di essere pronto a varare misure per 50 miliardi di euro in caso di ulteriore peggioramento della congiuntura. Non aspettiamoci però un atteggiamento più accondiscendente o qualcosa che vada al di là della flessibilità di cui abbiamo già copiosamente usufruito negli anni passati riguardo agli obiettivi di risanamento dei conti pubblici: i tedeschi non sbagliano quando ritengono che l’alto debito pubblico italiano è una costante fonte di instabilità per tutti e che il nodo da sciogliere per l’Italia sia la lenta crescita. Ne erano già preoccupati nel 2007, prima della crisi! Inoltre, è difficile risolvere in poco tempo il rebus di più poteri economici a Bruxelles e maggior controllo dei conti pubblici nazionali. La strada è quella, ma non ci si arriva domani e non è nemmeno chiaro come. Tanto più che negli ultimi anni sono aumentate le forze centrifughe”. 

Torniamo alla manovra italiana: si calcola che serviranno almeno 30 miliardi per neutralizzare l’aumento dell’Iva, fronteggiare spese indifferibili e avviare prime misure pro-crescita come il taglio del cuneo fiscale per 4 o 5 miliardi: verranno reperiti aumentando altre tasse, riducendo per davvero le spese o accrescendo il deficit e sperando nel buon cuore della nuova Commissione europea per un’altra dose di flessibilità? 

“Il conto è aritmeticamente corretto, tuttavia potrebbe rivelarsi economicamente sbagliato. Mi spiego. L’andamento dei conti pubblici nel 2019 è migliore del previsto e per ragioni strutturali, come ha sottolineato alcuni mesi fa Vincenzo Visco e come ha calcolato REF ricerche. Il passaggio alla fatturazione elettronica obbligatoria riduce l’evasione IVA e, a cascata, quella delle imposte dirette e dei contributi sociali. Questo vuol dire che l’anno prossimo ci sarà un maggior gettito anche di IRPEF, IRES e dei contributi. Cosicché avremo più entrate senza dover aumentare le aliquote, aumento che ha un costo politico elevato. Ciò è tanto più vero se, come si sta osservando, diminuisce il lavoro indipendente e a tempo determinato a favore di quello indeterminato, per effetto dello spostamento della convenienza relativa dovuta anche alle misure di riforma della Poletti, che azzoppava il Jobs Act. 

Infine, la riduzione dei tassi, dovuta sia al contesto internazionale sia alla manovra di assestamento del bilancio, che avrà effetti anche sull’anno venturo e su quelli successivi e che ha evitato la procedura europea per debito eccessivo, condurrà a una minore spesa per interessi. Tutto questo significa una sola cosa: il deficit 2020 si presenta nettamente inferiore al tendenziale tolte le clausole di salvaguardia. Diciamo un 2,7% o forse meno, contro il 3,5% su cui ancora ragionano molti commentatori. Lo ha fatto capire anche l’Ufficio parlamentare di bilancio. Dunque, la stazza della manovra sarà inferiore e sarà probabilmente giocata su qualche taglio di spesa e su un po’ più di disavanzo negoziato con la Commissione. Le entrate, come detto, stanno già facendo la loro parte”. 

L’aumento dell’IVA è davvero così nefasto? 

“Assolutamente no. In un contesto di revisione delle varie poste del bilancio pubblico, ossia di una manovra di qualità, come la chiamava Ciampi, più che di quantità, una maggiore IVA potrebbe servire a finanziare una riduzione dei contributi sociali e maggiori risorse per gli investimenti. Non è certo una ricetta nuova: se ne parla dagli anni 80 del secolo scorso e alcune volte è stata anche utilizzata. La vera differenza rispetto ad allora è l’estrema debolezza della domanda interna e dei consumi. Perciò andrebbe maneggiata con estrema cautela. Ma lo stesso Ciampi diceva che le manovre di qualità sono le più difficili, perché tolgono a qualcuno per dare a qualcun altro. Richiedono, perciò, maggioranze coese, che non si sono mai viste, nemmeno alle elezioni del 2008; basta ricordare come andò a finire quella legislatura: con la emergenza da super spread, la manovra Monti votata da tutti i maggiori partiti e la seconda recessione italiana”.  

In concreto, come dovrebbe essere concepita la manovra che serve all’Italia e che, dopo la stagione dell’assistenzialismo del Governo Lega-Cinque Stelle, punti sullo sviluppo senza dimenticare la disciplina di bilancio? 

“L’Italia ha urgente bisogno di rilanciare gli investimenti infrastrutturali. Ricordo che negli anni della crisi gli investimenti pubblici sono stati tagliati di un terzo. Qualcosa per rilanciarli è stato fatto, tanto è vero che nell’ultimo DEF la quota degli investimenti pubblici sul PIL è prevista salire dal 2,1% al 2,6%. Ma si deve fare di più. E poi occorre ridurre il cuneo fiscale e contributivo, che in Italia è tra i più alti d’Europa. L’abolizione di quota 100 e il ripensamento in chiave realmente anti-povertà degli 80 euro e del reddito di cittadinanza possono aiutare sul fronte delle coperture. Politicamente non è una passeggiata, me ne rendo conto. Né ci si deve illudere che basti mettere a posto i conti pubblici per rilanciare la crescita italiana, come credono in molti. Ma certo vivere con la perenne spada di Damocle dell’instabilità finanziaria e di una manovra lacrime e sangue che arriva tra capo e collo non aiuta le famiglie a spendere e le imprese a investire”.  

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