“L’Italia ha perso negli ultimi otto anni di crisi quasi il 30% del proprio capitale sia fisico che immateriale. Per tornare a crescere dobbiamo utilizzare al meglio la grande ricchezza finanziaria delle famiglie ed indirizzarla verso gli investimenti. Per far questo è fondamentale risanare a dare una nuova vocazione agli intermediari creditizi, mentre il settore pubblico deve canalizzare più risorse verso le infrastrutture ma anche verso gli investimenti in tecnologia ed in aumento delle conoscenze delle persone”.
Alessandro Pansa ha una lunga esperienza nel settore finanziario e in pi industriali come Finmeccanica, di cui è stato amministratore delegato fino a qualche anno fa. Ora è stato nominato nel consiglio della Banca Popolare di Vicenza appena salvata dal fondo Atlante, insegna all’Università ed opera come consulente. Per uscire definitivamente dalla recessione – secondo la sua esperienza – dobbiamo concentrare la nostra attenzione sugli investimenti. Il sostegno alla domanda di consumo non può avere successo perchè non è sufficiente a portare ad una “riduzione dell’incertezza” sulle prospettive a medio termine della nostra economia.
“I consumi interni aumentano – spiega Pansa – per tre ragioni: per la crescita demografica, e noi siamo da tempo stagnanti, se non in regresso; per l’arrivo sul mercato di prodotti nuovi come è avvenuto per i telefoni cellulari; o perchè si vive in una fase economica di
particolare floridezza. Oggi non si vedono né prodotti nuovi, né siamo nella fase alta del ciclo. E poi comunque nel caso di una popolazione che invecchia la domanda eventualmente si rivolge verso i servizi che nel complesso non contengono forte tecnologia né richiedono particolari competenze da parte dei lavoratori. In altre parole agire sono sul sostegno alla domanda delle famiglie non cambia le aspettative dei singoli e del corpo sociale verso il futuro, e quindi non riesce a trascinare l’economia fuori dalla crisi”.
Quindi dobbiamo investire di più. Ma come farlo con un sistema bancario paralizzato dal peso delle sofferenze e da un modello di business non particolarmente innovativo, con un sistema di imprese di dimensione troppo piccola per poter sopportare rischiose spese di innovazione, ed infine con uno Stato che non ha risorse sufficienti da destinare all’innovazione ed alla formazione? “Il problema si risolve se riusciamo a convogliare una parte della grande ricchezza finanziaria degli italiani che ammonta a quasi 4000 miliardi di Euro e che oggi viene investita un pò in tutto il mondo tramite i fondi comuni, verso i nostri settori produttivi. Per far questo abbiamo bisogno in primo luogo di banche solide ed efficienti. Oggi le nostre aziende creditizie al di là dei casi di cattiva gestione o delle vere e proprie truffe, sono penalizzate da norme regolamentari che di fatto agevolano le banche ad investire in prodotti finanziari (compresi i derivati) perchè questi non assorbono il capitale delle banche stesse, mentre per chi presta a clienti industriali deve possedere mezzi patrimoniali adeguati. Le banche italiane che sono state in prima linea nel finanziamento delle imprese, hanno non solo subito la crisi che ha provocato il fallimento di tante piccole aziende, ma si trovano nella necessità di avere maggiori mezzi propri rispetto ai competitori internazionali che operano sulle attività finanziarie. E’ una asimmetria che va rapidamente corretta se si vuole, come è necessario, dirottare una parte della ricchezza degli italiani verso gli impieghi produttivi. Ma per far questo occorreranno nel settore bancario anche competenze diverse da quelle attuali, è cioè una diversa organizzazione e un diverso tipo di conoscenze da parte degli addetti”.
Ma anche le imprese non sembrano in grado di recepire nuovo capitale per finanziare ambiziosi piani di sviluppo. “In questi anni – osserva Pansa – l’industria italiana si è divisa nettamente tra chi si è internazionalizzato e chi è rimasto a servizio del solo mercato domestico. Il primo gruppo sta facendo profitti e crescendo a buon ritmo. Per il secondo la crisi è veramente grave proprio perchè difficilmente la sola domanda interna potrà dare quella spinta necessaria alla crescita. E si badi la differenza non passa per le dimensioni delle imprese, ma dalla loro capacità e vocazione a stare sui mercati mondiali. E comunque noi abbiamo, come risulta dagli studi di Mediobanca, oltre 3000 imprese con capacità di primeggiare sui mercati internazionali. Dovremo essere in grado di sviluppare una politica a loro favore, capace cioè di accelerare ulteriormente il loro tasso di crescita, senza trascurare peraltro molte altre aziende che pur operando sul mercato interno, avrebbero le potenzialità per affrontare alcuni dei più promettenti mercati mondiali”.
Lo Stato quindi dovrebbe avere un ruolo importante sia per creare un ambiente regolamentare più favorevole alla crescita delle imprese, sia per finanziare l’innovazione tecnologica ma anche nelle conoscenze. “Noi siamo uno dei pochi paesi – afferma Pansa – in cui oggi si
brevetta meno di dieci anni fa. Le spese per Ricerca & Sviluppo sono basse ed anche la spesa pubblica in questo settore è modesta. E’ chiaro che dobbiamo capire che dobbiamo allocare le scarse risorse di cui possiamo disporre a favore degli investimenti in questi campi
oltre alla formazione che, almeno per quella di base, è compito prioritario dello Stato. Negli Usa ad esempio il 60% delle spese per la ricerca sono di provenienza pubblica. Lì esiste un meccanismo per cui il privato che vuole utilizzare il risultato di una determinata ricerca, debba pagare delle royalties, così che si crea un fondo pubblico rotativo, capace cioè di finanziare altre ricerche con quanto incassa dai privati. In Italia esiste un meccanismo simile, ma non funziona: nessuno ha mai pagato per l’utilizzo dei risultati delle ricerche finanziate da fondi pubblici”.
In conclusione ci vuole una politica industriale 4.0, come si dice oggi, e non una vecchia politica dei settori, che era stata fatta in
passato e che non ha mai dato buoni frutti.