Tutti sapevano che c’era, era lì sotto, in pochi metri d’acqua, un paio di miglia fuori dell’Isola del Coniglio, a Sud di Capo Palinuro, e noi volevamo vederlo. In molti dicevano che c’era, ma nessuno sapeva dire dove. L’oggetto dei nostri desideri era un aereo tedesco precipitato in mare nel corso dell’ultima guerra mondiale, ma trovarlo non era facile, nessuna coordinata, poche e vaghe indicazioni, perfino contraddittorie e uno spazio, quello del mare, senza fine. Il meteo ci era favorevole, almeno per i successivi tre giorni, l’acqua piatta e cristallina, in giro c’erano solo le ultime barche dei vacanzieri di una estate ormai agli sgoccioli.
La preparazione della ricerca fu pianificata tenendo conto dell’esigenza di esplorare un tratto di mare piuttosto esteso, prima in superficie, utilizzando due gommoni muniti di bussola, ecoscandaglio e GPS. Carte nautiche alla mano ipotizzammo di eseguire quattro “percorsi a U” al fine di realizzare la copertura totale di una zona di forma quadrata concentrata nello spazio che alcuni pescatori e diving della zona ci avevano classificato come “area probabile”. L’immersione sarebbe ovviamente avvenuta solo nel caso di un successo di questa prima ricerca o di indicazioni almeno possibiliste alla lettura dell’ecoscandaglio, e – certamente – dopo un nuovo briefing a terra. Solo l’ottimistico entusiasmo della nostra curiosità poteva far decollare una ricerca sostanzialmente basata su “un paio di miglia” e “fuori” dall’Isola del Coniglio, davvero poco anzi, più nulla che poco, per non parlare della “tecnologia da diporto” dell’epoca, già scarsa, e soprattutto quella disponibile per le nostre tasche, sicuramente modesta. Ci rendemmo conto, però, che un fattore giocava a nostro favore: un fondale sabbioso, uniformemente piatto a tal punto che ci incoraggiammo vicendevolmente dicendoci che avremmo potuto leggere sul profilo dell’ecoscandaglio anche il rilievo di un guscio di vongola.
Alla prova dei fatti, però, la ricerca risultò noiosa, senza sussulti e i cambi di direzione a 90 gradi si alternavano in un pessimismo crescente. Due giorni così era dura, ma la giornata si chiudeva invariabilmente con un “Oggi, ancora niente” che la diceva lunga sulla voglia di insistere e sulla convinzione di farcela. Il terzo giorno riprendemmo la ricerca laddove l’avevamo lasciata. Sabbia, sabbia, pescioni vaganti e ancora sabbia. S’era fatta quasi sera, era ora di rientrare quando, all’improvviso, l’encefalogramma piatto del nostro strumento evidenziò qualcosa di diverso, un rialzo, una gobba, che però perdemmo subito e il profilo tornò piatto. Tornammo indietro, registrando subito un “mark” vicino al “waypoint” n°1. Tornò l’ombra, il bozzo, un bernoccolo sul fondo, “Eccolo, è lui! “. Riperdemmo e riprendemmo il segnale più volte, sfuggì ancora, sembrò in effetti troppo poca cosa, anzi a dire il vero sembrava solo una piccola roccia, non più alta di un paio di metri, tonda, breve, un segnale troppo modesto per essere quello che cercavamo, insomma troppo dissimile dal profilo atteso per un aereo. Però, una sola roccia che spuntava in un arenile assolutamente piatto, anche questo era cosa improbabile. “Domani si va a vedere”, ci dicemmo, anche perché, tra la noia della ricerca ad U e un’immersione non c’è mai partita. Segnammo quindi la profondità, -19 metri e prima di rientrare lasciammo, ad ogni buon conto, anche un pedagno artigianale per ritrovare il punto più in fretta l’indomani.
La sera fu lunga, in positivo e in negativo, per l’avvistatore, la notte lenta per tutti. La mattina briefing alle nove, poi fummo sul posto – ancorati – in una mezz’ora. La nostra bottiglia in plastica, il pedagno improvvisato, cui avevamo legato una sagola con due piombi da un chilo, manteneva fissa la sua posizione lasciando sfilare lievi cenni di onda. La visibilità era peggiorata, non ci era chiaro perché, ma scendemmo con l’ansia di sapere. Appena il tempo di scaricare il GAV e scendere di quota che s’intravvide una massa che non aveva proprio nulla di un aereo, sembrava una roccia coperta da un velo di sabbia, poi si capì cos’era. Era lui, l’aereo, coperto da una fitta ragnatela di reti da pesca, sembrava che un grande sacco di juta avesse incartato qualcosa che ammetteva di essere un aereo solo per la presenza, inequivocabile, di un’ala disassata e sbilenca, libera da reti, che puntava quasi verso il cielo. Dalla parte opposta, più strati di reti impedivano la vista dell’altra ala, piatta sulla sabbia, ma su quello strano imballaggio di maglie fitte e sature di sabbia intorno a quell’ala troneggiavano ineffabili i nostri due piombi assicurati ad una sagola con una semplice gassa d’amante.
Avevamo dunque centrato il bersaglio! Ci muovemmo con cautela per non sollevare sabbia e sedimenti, pinneggiammo come da manuale perché lo spettacolo non si guastasse. La rete da pesca aveva profonde lacerazioni proprio dalla parte della fusoliera, in corrispondenza di quella che doveva essere la sede del cupolino del pilota. Una fortuna insperata. Potevamo osservare da vicino lo spazio angusto riservato al pilota. Credo di essere stato l’ultimo ad averlo visto, quell’aereo, un monomotore, quindi non uno Junkers Ju 88 come andavano raccontando, che invece di motori ne aveva due, posizionati ciascuno sull’ala, no, questo era un velivolo con un solo motore centrale, inequivocabilmente uno Stuka Ju 87 B, sempre costruito dalla Junkers, con pari apertura alare, diciotto metri, uguale lunghezza, sui quindici metri. Schiantato al suolo, avvolto dal silenzio del mare, sembrava un giocattolo, aveva perso quel caratteristico carrello fisso con le ruote carenate che ricordano la nostra Vespa degli anni ’50, aveva lasciato da qualche parte quasi tutta la coda, ma si lasciava ammirare da quell’invito in corrispondenza del posto di pilotaggio, nella carlinga, sulla destra, ancora intatte c’erano due lunghe bombole sovrapposte a sezione ridotta, cavi guida in metallo e misteriose scatole di comando, solo un accenno di sedile e sulla strumentazione di governo che aveva conservato su un simulacro di cruscotto le forme tonde degli indicatori, buchi persi nel vuoto, quasi inutili occhi ciechi fissati sull’ultima immagine, mentre infaticabili colonie di microrganismi tentavano di tappezzare di ciclamino quella che era stata una pericolosa macchina da guerra.
Ho toccato quell’arma, sorprendentemente leggera, quasi un velo di alluminio era il suo vestito e ho visto quell’ala che ancora sognava e puntava il cielo, ma come un gabbiano ferito agitava le sue ali sguaiate. C’era l’aereo e ora non c’è più, così mi hanno detto quelli del posto. È nascosto da qualche parte, forse trascinato via e definitivamente distrutto dalle reti di infastiditi pescatori, disturbati non poco, nella pesca, da quella piccola, ma insidiosa escrescenza che nasce dal nulla sulla sabbia. Sarà volato via, tornato a casa, forse pentito del suo carico o forse è ancora da quelle parti, magari un po’ più in là di dove l’avevo visto l’ultima volta e poiché di quell’aereo ho il più caro ricordo del mio primo avio-relitto, ma non una foto, se qualcuno dovesse ritrovarlo, me lo faccia sapere, che vorrei passare a salutarlo, come un vecchio amico che non vedo da tempo.
Buongiorno io e il Mio amico Pino di Palinuro fummo forse i primi civili a visitare il relitto subito dopo le verifiche della guardia costiera. Confermo aereo tedesco mono motore a circa 20 metri di profondita’ visibile anche dalla superfice. Bellissimo
Uno Junkers Ju 88 sta anche a largo di Gallipoli. Ne cadevano di questi Junkers nella seconda guerra mondiale perché erano aerei da assalto in picchiata
Può essere questo? https://www.giornaledelcilento.it/castellabate-il-mare-restituisce-i-rottami-di-un-aereo-della-seconda-guerra-mondiale/
No, non credo possa trattarsi dello stesso relitto. Sono troppo distanti.