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“Paesaggi migratori” di Iain Chambers, un libro controcorrente

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Il saggio di Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Orientale di Napoli, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, riedizione 2018 di Meltemi editore della edizione originale Migrancy, Culture, Identity, Routledge 1994 è, a suo modo, provocatorio. Ma in senso positivo. È necessario, ora più che mai, liberarsi da stereotipi e luoghi comuni, guardare il mondo e, soprattutto, i suoi abitanti in maniera diversa, nuova e imparare a far parte dell’alterità. Una visione interna. Critica. Precisa. Obiettiva.

Osservare, studiare, valutare il fenomeno migratorio da dentro, dall’interno, come un qualcosa che appartiene al mondo, al nostro, quello di tutti e non solo come un “problema” che riguarda l’altro e il suo di mondo.

Iain Chambers sottolinea come i migranti siano letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una migliore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia. “Pensare con la migrazione”, andare oltre la superficie fino alle «più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige il nostro mondo». Il razzismo, per esempio, non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma «una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo».

Si assiste, ancora oggi, a una chiusura culturale che culmina nella «isteria socio-politica» generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità e di un «io» che «si rinchiude nella illusoria sicurezza di un luogo». Dinanzi alla minaccia immaginaria dello straniero e del mondo cosiddetto “esterno”, «che ormai “esterno” non è», questa «chiusura» sembra «ignorare i movimenti, spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e culturali del mondo attuale». Chambers, con l’analisi del fenomeno condotta in Paesaggi migratori, si dimostra molto ben intenzionato a promuovere un rapporto radicalmente diverso, nuovo e a tratti “inquietante” con la propria formazione storico-culturale.

I migranti, affermando il loro diritto di muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la «modalità precaria contemporanea della vita planetaria». È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi «viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico».

Il testo di Chambers, a quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, è ancora straordinariamente attuale ed estremamente indicativo della capacità di analisi dell’autore, il quale ha saputo descrivere il mondo di allora nonché la direzione, a volte troppo sbagliata, verso cui stava andando. E verso cui poi è effettivamente andato.

La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di «rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza», ma anche e nella stessa misura «nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo». Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove, «ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica», ma migra dalla periferia per «eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea», allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, ricorda al lettore Chambers, «riconosciamo di non essere più al centro del mondo». Incontrare gli altri si accompagna sempre a incertezza e paura. Nell’attraversare e andare oltre a un ruolo filosofico di conferma dell’ordine esistente, il migrante sfugge ai confini astratti predefiniti per lui e per lei. Non si tratta di un mero conflitto sociale o politico sul diritto di muoversi e migrare, ma anche di «una questione epistemologica».

Ciò che una volta era stato collocato fuori, oltre i confini del nostro mondo, è lì «confinato e spiegato da una gestione coloniale, il razzismo “scientifico” e la disciplina emergente dell’antropologia», ora non può più essere tenuto a distanza critica. La separazione e l’isolamento degli altri come semplici «oggetti di interesse» politico, culturale e filosofico ora crolla e trafigge il centro «con le loro insistenze come soggetti storici». Ci si avvicina allo smantellamento dei binarismi su cui i discorsi politici, culturali e critici dell’Occidente si sono «appoggiati per gestire la loro egemonia sul pianeta»: centro-periferia, Europa-il resto del mondo, bianco-nero, progresso-sottosviluppo. L’umanitarismo e l’impalcatura dell’umanesimo e dei diritti e degli obblighi associati devono ora «negoziare un percorso verso una politica che implichi molto più della semplice applicazione di un modello fornito dal governo e dalle leggi esistenti». La nazionalizzazione delle questioni politiche e culturali continua a confermare un «ordine globale esercitato attraverso l’autorità nazionale, il potere statale e il mantenimento dei confini».

Invece che come un «fláneur ottocentesco», sarebbe più significativo considerare il migrante come «l’epitome della cultura metropolitana moderna». Il viaggio lascia sottintendere un possibile ritorno, invece la migrazione comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, e richiede che si «risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione». Il migrante non fa ritorno e anche laddove possa “tornare indietro”, non sarà mai semplicemente questo. Il cambiamento avvenuto è irreversibile. La persona non sarà mai la stessa di prima e per l’ambiente vale lo stesso. Sia quello di partenza che quello di arrivo. 

Nei vasti e multipli mondi della città moderna «anche noi diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro». Si viene introdotti in uno «stato ibrido, in una cultura composita in cui il «semplice dualismo di Primo e Terzo Mondo si sfalda», lasciando emergere ciò che Homi Bhabha chiama “comunanza differenziale” e Félix Guattari definisce “processo di heterogenesis”. La figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che reinventa i linguaggi e «si impadronisce delle strade del padrone».

Quello che gli occidentali si sentono costretti a fare e che li impaurisce è «discutere e disfare il punto di vista unico e omogeneo», il senso di prospettiva e di distanza che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo, nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Le «illusioni di identità» organizzate intorno alla «voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore esterno» vengono spezzate e spazzate via con un movimento che «non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra pensiero e realtà». Questo porta alla «liberazione di voci diverse», a un incontro con una parte “altra”, a un «dischiudersi del sé che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico».

Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo ora, invece, chiamati a pensarli come «prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi». Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro e «lascia queste altre culture in posizione i subalternità», Iain Chambers contempla un qualcosa che va ben oltre «il multiculturalismo e la sua logica di assimilazione» perché «l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo». Lo sguardo d’indagine deve essere obliquo per poter catturare tutte le espressioni che esso offre, per comprendere “l’altro” ma anche se stessi in misura migliore.

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