Dalla polvere alle stelle in una ventina di giorni, non di più. Quelli che separano la scoperta del cadavere di Roberto Calvi che penzola dal ponte londinese dei Frati Neri, il 18 giugno, fino al trionfo azzurro a Mondiali del 1982, l’11 luglio, in una Madrid che, come disse Nando Martellini nella sua telecronaca più famosa, “stasera si tinge di tricolore”.
Un gran colpo di fortuna per Giovanni Spadolini, il presidente del Consiglio più digiuno di scienza calcistica della storia nostrana che, addì 2 luglio, aveva avuto la fortunata intuizione di far tappa a casa Italia, il fortino azzurro assediato da una critica ostile, specchio di un Paese stressato, sull’orlo di una crisi di nervi, come sempre, forse più di sempre: inflazione al 18,7%, conti pubblici alle prese con il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, la Fiat a metà del guado. E per quanto riguarda il clima del Paese, il generale Dalla Chiesa isolato in quel di Palermo (sarà assassinato a settembre), mentre le Brigate Rosse tengono ancora sotto forte pressione fabbriche ed istituzioni.
Ma questa era l’Italia di prima. Prima di quei tre gol al Sarrià di Barcellona che Paolo Rossi, da quel momento per tutti Pablito, segna alla corazzata brasiliana, salvo ripetersi contro l’Argentina del nascente mito Maradona e la corazzata tedesca, da sempre la rivale storica. Un miracolo? Qualcosa di più: l’azzurro che Giovanni Arpino, in un romanzo dedicato alla Nazionale, aveva descritto “tenebra” per descrivere quel non so che di torbido che circonda l’Italia ufficiale, assume un carattere solare, l’immagine di un Paese che s’illude di poter essere “la quinta Potenza industriale”, gli industriali lasciano le auto blindate nei garages di Montecarlo per girare per le città: Gianni Agnelli viene circondato da una folla di studenti in galleria a Milano. Contestazione? No, la folla applaude uno dei Condottieri, quelli che, da Silvio Berlusconi a Raul Gardini e Carlo De Benedetti, promettevano di render grande l’Italia anche fuori dagli stadi.
Non è andata così. Certo non per colpa di Paolo Rossi, campione dal nome comune ma dai talenti umani, non solo calcistici, eccezionali. Uno che ha saputo rispondere con i fatti alle parole più velenose, facendo leva su quello spirito di squadra che spesso ci fa difetto.
Senza complessi, come dimostrò in uno storico braccio di ferro con Boniperti che fino all’ultimo si rifiutò di adeguare l’ingaggio all’ultimo Pallone d’oro del calcio italiano: 125 milioni di vecchie lire, roba che oggi varrebbe l’ingaggio di un buon portiere di riserva di serie A. E nemmeno per colpa di Marco Tardelli, ancor oggi ben vivo nella memoria di tutti gli italiani per quella corsa sul prato di Madrid che suonò un po’ a liberazione dagli anni di piombo.
Non a caso tocca sempre al calcio, espressione massima della cultura popolare di casa nostra, suonare la riscossa nei momenti più delicati. Anche Fabio Grosso, autore del rigore decisivo ai Mondiali di Germania, ha saputo risvegliare quel qualcosa che va al di là di ingaggi, calcoli di classifica miserie varie della vita di ogni giorno.
Tre lampi, Rossi, Tardelli, Grosso, che rappresentano un fil rouge che segna le generazioni e fa da antidoto al provincialismo della secessione (passato di moda) così come al gran vociare dei sovranismi. Quel che conta non è gridare al vento o sussurrare al taccuino del giornalista amico. Arriva per tutti il momento di dimostrare di saper giocare. Come quei tre, in attesa di eredi.