La notizia era nell’aria: E’ stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è nelle nomination all’Oscar 2022 per il miglior film straniero. È una buona notizia? È vera gloria per il cinema italiano? Per certi aspetti, certamente si: è pur sempre un giusto riconoscimento verso una parte della nostra produzione cinematografica che comunque esprime grande qualità. Per altri aspetti, invece, induce a riflettere più attentamente sul suo significato, sia nel merito del film proposto sia per quanto riguarda invece il “peso” specifico dei titoli e registi nazionali nel contesto della cinematografia globale dove Sorrentino è chiamato a competere (da tenere in debito conto che questo film è prodotto e distribuito da Netflix che quest’anno ha in concorso oltre 25 nomination mentre lo scorso anno ne aveva 35).
Per quanto riguarda il titolo, appena È stata la mano di Dio è uscito nelle sale ne abbiamo scritto a lungo su FIRSTonline esprimendo forti riserve. E abbiamo sostenuto chiaro e tondo che il lavoro di Sorrentino è tutto troppo poco perché incentrato solo sulla sua autobiografia, come nello stesso periodo hanno fatto i suoi due illustri colleghi: Carlo Verdone (Vita da Carlo) e Nanni Moretti (Tre piani). Ancora una volta, la propria storia, le vicende personali, il cassetto dei ricordi d’infanzia dei registi hanno avuto in questi titoli la loro affermazione più rilevante. E, notoriamente, un prodotto di questo tipo potrebbe non essere sufficiente per competere sulla scena internazionale e sperare di conquistare pubblico nelle sale (numeri non esaltanti). Viene subito da pensare: quando poco da dire, parla di te stesso.
Beninteso, è pure necessario saperlo fare bene e non è cosa da tutti. In questo caso Sorrentino, con questo film, ci è riuscito molto bene, da par suo, ma siamo lontani anni luce dal suo Oscar del 2014 con La grande Bellezza. In quella occasione è stata premiata non solo la sua grande capacità tecnica alla regia, ma anche la proposta, il racconto per immagini di un grande soggetto che già con il suo nome è sufficiente a reggere tutto il film: Roma.
È stata la mano di Dio, per paradossale che possa apparire nel momento in cui assume la “gloria” della nomination agli Oscar, fa emergere e fotografa più o meno perfettamente lo stato di salute del cinema italiano: deboluccio, febbricitante, senza energie e sfibrato dal Covid. Quest’ultima considerazione troppo spesso però viene usata come una attenuante, una specie di “salvagente” che vorrebbe consentire il galleggiamento in un mare che è tempestoso già da molto tempo.
Quando si dibatte di crisi del cinema italiano non si può fare a meno di valutare la solidità dei tre pilastri sui quali poggia il cinema: ideazione, produzione e distribuzione. Se provate a digitare su Google “crisi del cinema italiano” vi compaiono numerosi link che si riferisco a ben prima del dilagare della pandemia che ha visto tutti noi rintanarsi dentro casa e svuotare le sale.
Tra chi si occupa di cinema si cita spesso un libro del 1982 di Paolo Bertetto (Bompiani) con il titolo “Il più brutto del mondo: il cinema italiano oggi” dove l’autore lanciava già allora una forte accusa alla generazione dei grandi registi che hanno scritto le pagine più gloriose del cinema nazionale (da Bertolucci passando a Ferreri e finire a Fellini) e che hanno fatto certamente scuola ma hanno lasciato pure un deserto di creatività del quale ancora si sente il peso e nel quale pochi sono stati in grado di emergere. Non a caso, lo stesso E’ stata la mano di Dio inizia con immagini in cui ripropone un “omaggio” al Maestro Federico (il lampadario in terra).
Proponiamo un piccolo esercizio: provate a stilare un vostro personale breve elenco dei migliori titoli italiani degli ultimi 10 anni. E’ molto probabile che dopo aver ricordato (citiamo a caso tre i nostri preferiti) Matteo Garrone con Dogman, Cesare deve morire dei Fratelli Taviani, Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e, appunto, La grande bellezza di Paolo Sorrentino, vi rimane ben poco altro da aggiungere. Abbiamo citato solo qualche titolo dove si è cercato di spaziare oltre i generi “tradizionali” della commedia più o meno italica, cioè in grado di affrontare altri temi leggermente più distanti dal proprio ombelico nazional-popolare. Avete per caso in memoria qualche titolo di altro genere? Ricordate film recenti ad esempio sul tema “storia” o “avventura”?
Allora, come abbiamo prima accennato: anzitutto ci sembra che si possa osservare una debolezza strutturale di scrittura creativa, di invenzione, di immaginazione, di sceneggiature forti e convincenti. Poi il cinema italiano deve fare i conti con un sistema di produzione nazionale per un verso impigrito da contributi a pioggia che hanno guardato più ai titoli “regionali” (le famigerate “Film Commission di …” che puntavano più a realizzare spot promozionali che non a sostenere opere di qualità. Per altro verso, anche i produttori hanno le loro responsabilità nel poco coraggio espresso ad investire in qualità più che in quantità. Attenzione: questo non significa che per fare buoni film occorrono grandi capitali, anzi, spesso, è vero il contrario (i fratelli Taviani insegnano).
Certo, e torniamo al Covid, sono due anni che la macchina del cinema si è inceppata in tutti i suoi comparti ed è oggettivamente difficile pensare di produrre qualcosa che poi non si sa quando potrà uscire nelle sale. Se a tutto questo aggiungiamo il dilagante potere produttivo e distributivo dei giganti della rete (Netflix, Amazon Prime, Disney+ ) tutte le valutazioni assumono ben altra direzione e consistenza. La distribuzione (ed ora sempre più anche produzione) sul Web così come lo streaming stanno cannibalizzando la televisione e allo stesso tempo cambiano e trasformano la natura “intima” e profonda del cinema.
In questo ultimo quarto di secolo è mutato profondamente il linguaggio espressivo, le diverse la capacità attoriali, i tempi di ripresa concentrati in sequenze di clip, la scenografia, le luci, i movimenti della cinepresa. Siamo inondati da proposte sempre più globalizzate che inducono senza dubbio a fare i conti con un mondo nuovo del cinema rispetto al quale il nostro Paese fatica a reggere la concorrenza. La domanda che si pone è semplice: il cinema italiano è attrezzato a sostenere questo confronto?
L’ultimo Report Anica su “I dati del Mercato Cinematografico 2021” ci fornisce numeri impietosi e segnala l’annus horribilis del cinema italiano appena trascorso. Leggiamo che “Rispetto al 2020, che aveva beneficiato prima delle chiusure di uno dei migliori avvii di mercato di sempre, si tratta di una diminuzione degli incassi e delle presenze rispettivamente del 7,19% e dell’11,87% mentre in confronto al 2019 di una diminuzione del -73,36% e del -74,60%; rispetto invece alla media del periodo 2017-2019 si tratta più in generale di un calo del 71,39% degli incassi e del 73,03% delle presenze”.
Questo per quanto riguarda il cinema italiano: “L’incasso totale (incluse le co-produzioni) in sala durante l’anno 2021 è stato di € 36.336.187 (21,45% del totale box office; -64,8% rispetto al 2020; -45% rispetto alla media del periodo 2017-2019 dal 26/4) per un numero di presenze pari a 5.576.987 (22,49% del numero totale dei biglietti venduti; -64,4% rispetto al 2020; -45,6% rispetto alla media 2017-2019)”. Se togliamo un paio di titoli blockbuster (vedi ToloTolo di Zalone) rimangono briciole. Nel frattempo le sale cinematografiche nei piccoli e grandi centri urbani chiudono e cadono come mosche e, salvo rare e piccole eccezioni (vedi ad esempio la storia del cinema Troisi a Roma: un grande merito di un gruppo di ragazzi dell’Associazione Piccolo America che meritano la citazione) sarà difficile immaginare una ripresa entro breve tempo.
Per ora, accontentiamoci di tifare e sostenere Paolo Sorrentino per un nuovo Oscar. Il regista si sente già “vincitore” per il solo fatto di essere stato nominato e ne ha, ne abbiamo tutti, buon motivo per crederci. Per il resto, oltre l’Oscar, non ci resta che sperare in un miracolo cinematografico italiano che però non si sa bene da che parte possa provenire.