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Oscar 2019, le occasioni perdute del cinema italiano

Nella lunga notte di Los Angeles il grande assente è il cinema italiano, ad eccezione di Sara Pichelli, premiata con la stauetta insieme agli altri disegnatori di Spiderman – Una decina di titoli Made in Italy avrebbero potuto concorrere ma la crisi italiana ha radici profonde: scrittura, temi e contenuti non sono all’altezza del mercato internazionale, ecco perché

Oscar 2019, le occasioni perdute del cinema italiano

Le occasioni perdute del cinema italiano. Ancora una volta siamo indotti a proporre questo titolo per sottolineare lo stato di salute della maggiore industria culturale nazionale che nella notte magica degli Oscar 2019 a Los Angeles ha trovato solo un piccolo per quanto significativo riconoscimento con il premio a Sara Pichelli, nel gruppo dei disegnatori di Spiderman. Per tutti gli altri premi, e sono tanti, non ci sono tracce di italiani.

Con gli Oscar 2019 sono stati premiati titoli importanti: miglior film a Green Book di Peter Farrelly (distribuito in Italia dalla Leone Film Group). Un riconoscimento a sorpresa rispetto a Roma di Alfonso Cuaron, che pure era molto quotato per questo premio, anche se è stato bene ricompensato con tre statuette: la regia migliore, la fotografia e il migliore film straniero.

Gli Oscar come migliori attori protagonisti a Olivia Colman per la superba recitazione nel film La Favorita firmata dal regista greco Yorgos Lanthimos e a Rami Malek per il meritatissimo successo ottenuto con Bohemian Rhapsody. Intanto osserviamo che FIRSTonline li aveva già “premiati” con le proprie stellette e tutti i film vincitori dei cinque premi principali hanno avuto un apprezzamento confermato non solo dagli Oscar ma anche dal successo al botteghino.

Partiamo proprio da quest’ultimo dato: in Italia il numero delle persone che vanno solitamente al cinema e pagano il biglietto sono sempre meno. Il 2018 ha registrato il peggiore incasso rispetto ai 10 anni precedenti, con un totale di circa 555 milioni rispetto ai 736 del 2010. Ci sono tanti buoni motivi che consentono di comprendere perché questo avviene e anche su questo giornale ne abbiamo scritto più volte. Tra questi, ricordiamo una crisi di scrittura, di carenza di temi e contenuti in grado di sostenere un mercato cinematografico che, almeno per i grandi numeri, parla un linguaggio comprensibile in tutti i continenti ed è distribuito su tutte le piattaforme. Non a caso, tra i film più premiati con l’Oscar c’è Roma di Cuaron, prodotto e distribuito da Netflix.

Allora, perché nessun film italiano è nemmeno entrato nelle cinquine per le nomination? Vediamo quali avrebbero invece potuto avere merito. Il primo che viene in mente è il pluripremiato Dogman di Matteo Garrone (Cannes, Venezia, Nastro d’argento, European Film Awards etc). Cosa gli mancava per ambire alla scena internazionale più prestigiosa (anche se su questo tema si potrebbe argomentare)? A nostro personale giudizio non mancava nulla ma dobbiamo ammettere che si tratta di un prodotto molto, forse troppo, vicino ai nostri linguaggi cinematografici in grado di osservare e descrivere benissimo le nostre vicende, le nostre storie recenti e lontane, che però non riescono ad assumere quel modo di raccontare, di sceneggiare cinematograficamente, luoghi e persone apprezzabili nel resto del mondo. Per molti aspetti, la gloria del nostro cinema è un grande vantaggio per i nostri autori, attori e produttori, ma spesso porta a indugiare sugli allori e impigrire la ricerca di nuove proposte.

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Vedi pure il caso di Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino (uscito nelle sale italiane a gennaio 2018 e candidato a quattro premi Oscar) che pure aveva tutti i crismi per ambire a vincere un Oscar: un tema universale, ottima sceneggiatura la sola premiata con la statuetta, recitazione di alto livello, direzione di grande qualità, produzione internazionale. C’erano molti buoni ingredienti e soprattutto la firma di un regista italiano che merita grande apprezzamento salvo poi dover vedergli firmare un prodotto come Suspiria, remake del noto film di Dario Argento, che invece non sembra essere stato molto apprezzato dalla critica e dal pubblico.

Per il resto, il 2018 del cinema italiano è stato un fritto misto della solita commedia all’italiana in salsa rivista e aggiornata dai temi “caldi” che vive il nostro Paese: il dramma dei migranti, dell’integrazione sociale, della criminalità organizzata o della biografia del noto personaggio politico (vedi Loro 1 e 2 di Paolo Sorrentino). Tra i 21 film dello scorso anno che sono stati in corsa per rappresentare il cinema italiano all’Academy  meritano la citazione Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, Ella & John – The Leisure Seeker il primo film americano di Paolo Virzì, La terra dell’abbastanza dei giovani fratelli 29enni Damiano e Fabio D’Innocenzo e poco più. Per il resto, tutto troppo poco, tutto troppo “italiano” e tanto di già visto sullo schermo dove pure si aggiunge una problema: sullo schermo sempre i soliti noti, la stessa compagnia di giro che occupa tutti gli spazi importanti e lascia le briciole ai nuovi e giovani attori che pure hanno talento.

Proprio questa settimana abbiamo visto il film, da pochi giorni nelle sale, The Front Runner – Il Vizio del Potere un thriller politico firmato da Jason Reitman e riferito alla vera storia del candidato democratico che nel 1987 perse la corsa alla Casa Bianca a causa di uno scandalo sessuale. La vicenda è interessante anche per un grande filone del cinema USA: il complesso e difficile rapporto tra stampa e potere politico. Si tratta di un filone che in Italia è pressoché sconosciuto eppure ce ne sarebbe da scrivere e raccontare sul grande schermo.

Purtroppo, siamo costretti ad ammettere che non si vedono all’orizzonte autori e titoli che in un ormai lontano passato hanno dato una luce infinita e grandiosa alla cinematografia nazionale. Non scomodiamo nomi come Fellini, Bertolucci, Benigni solo per citarne alcuni. La crisi del cinema italiano non sembra proprio essere, come alcuni ritengono, l’invasione degli ultracorpi dello streaming videotelevisivo quanto più in modelli di produzione, di realizzazione e diffusione nelle sale forse troppo ossessionati dalla quantità di soldi intascati facilmente (anche grazie ad un sistema di sovvenzionamento ministeriale da rivedere) piuttosto che dalla qualità che, alla fin fine, è la sola merce ben pagata e apprezzata dagli spettatori.

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