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Ortombina: “La Scala agli arabi? Nessuno scandalo”

“Non è vero che con la cultura non si mangia. Anzi la cultura, oltre ad avere un valore inestimabile per la società, se prodotta in modo efficace non costa nulla allo Stato e genera anche ricchezza”. A ribadire il concetto è Fortunato Ortombina, Sovrintendente da un anno del Teatro La Fenice di Venezia, di cui è direttore artistico dal 2007 dopo un passato alla Scala di Milano e al San Carlo di Napoli. Durante la sua gestione, La Fenice è letteralmente risorta dalle ceneri del terribile incendio del 1996, triplicando le rappresentazioni musicali negli ultimi 12 anni e raddoppiando gli spettatori dal 2017 al 2018. “Grazie alla biglietteria, che oggi vale un terzo dei nostri ricavi, siamo riusciti a compensare gli effetti della crisi del 2008 e soprattutto i drastici tagli dello Stato, che ora stanzia circa la metà dei fondi rispetto al 2007”. Come è stato possibile questo miracolo, Ortombina lo spiega nella sua intervista a FIRST Arte, nella quale è intervenuto anche sulla polemica per il possibile ingresso del governo saudita nel capitale della Scala di Milano: “Non dobbiamo avere paura di nessuno”.

Maestro, 23 anni fa il tragico incendio e poi la lunga e faticosa risalita. Ci consenta il gioco di parole: come La Fenice è risorta dalle proprie ceneri?

“Non è un gioco di parole, è andata esattamente così. Gli anni della ricostruzione sono stati difficilissimi, il Teatro ha riaperto nel 2003 e i lavori di fatto partirono solo nel 2001. Vi lascio immaginare le difficoltà logistiche di un cantiere così importante in una città come Venezia. Ricordo anche che ci furono molte polemiche: c’era chi voleva cogliere l’occasione per realizzare una costruzione di architettura moderna, ma alla fine il sindaco Massimo Cacciari rilanciò lo slogan che fu utilizzato già nel 1913 per la ricostruzione del Campanile di San Marco: ‘come era prima, dove era prima’. E così, grazie al contributo di tantissimi soggetti, anche stranieri, La Fenice ce l’ha fatta. Per esempio, Luciano Pavarotti ci donò il cachet di un suo spettacolo dei Tre Tenori, da cui all’epoca incassava circa 2 miliardi di lire. Anche Woody Allen, che era qui nei giorni dell’incendio, visitò il cantiere e donò qualcosa. La rinascita della Fenice è stata un miracolo, un caso forse unico al mondo”.

Siete ripartiti e, l’anno scorso, avete anche raddoppiato gli spettatori. Come è stato possibile?

“La Fenice, come quasi tutti i teatri lirici italiani, aveva un pubblico costituito prevalentemente da abbonati, era poco aperto ai turisti e a un pubblico più giovane. Semplicemente, abbiamo pensato di aumentare l’offerta, cercando di diversificarla. Il nostro Teatro era famoso per una programmazione fatta di titoli importanti ma desueti, non di grandi classici. Ne abbiamo riproposti alcuni, come ad esempio una versione rivisitata de La Traviata di Verdi, aumentando serate e allestimenti. Nel 2010 facevamo 55 rappresentazioni l’anno, nel 2011 erano già 105, oggi sono quasi 150. Questo ha suscitato l’interesse di un pubblico sempre più ampio. E’ come un negozio o un ristorante: se lo trovi quasi sempre chiuso, hai meno probabilità di andarci”.

Questa rivoluzione non ha comportato un aumento dei costi?

“Era quello che mi si diceva all’inizio: come pensi di fare tutta quella roba lì senza spendere di più? E poi mi si diceva anche che alcuni spettacoli sarebbero stati disertati, che non conveniva programmarne così tanti in una città come Venezia che contando solo il centro storico fa appena 53.000 abitanti. Invece abbiamo sfatato entrambi questi miti: produrre di più non significa spendere di più, è bastato ottimizzare, utilizzare meglio le risorse che avevamo a disposizione. In questi anni non abbiamo assunto nessuno: abbiamo fatto tutto questo con gli stessi dipendenti, e senza ricorrere a straordinari. In passato sfruttavamo la forza lavoro al 40% delle proprie capacità, ora siamo intorno all’85-90%. Mi permetta anche di aggiungere una cosa”.

Prego.

“Nel 2018, oltre a raddoppiare gli spettatori, abbiamo anche registrato una significativa inversione di tendenza: fino al 2017 la nazionalità più rappresentata nel pubblico erano i francesi, dall’anno scorso sono gli italiani. I veneziani, ma pure gli spettatori in arrivo da tutta Italia, grazie anche alle infrastrutture che collegano meglio il Paese rispetto al passato. Penso ad esempio all’alta velocità che oggi ti porta qui da Firenze in due ore. Prima c’erano solo abbonati, oggi La Fenice è aperta a tutti, anche ai giovani”.

A questo proposito: si parla tanto dei giovani di oggi come disinteressati alla cultura e ossessionati dai social network. Invece…

“Le dico la verità: forse c’è più domanda di cultura oggi rispetto a quando ero studente io. Intanto perché sono cambiate le stesse istituzioni culturali, con la riforma di Veltroni che le ha trasformate in fondazioni di diritto privato. Chissà, se questa riforma fosse arrivata prima, forse avremmo avuto la stessa domanda anche in passato, ma sta di fatto che con quel passaggio i musei, i teatri, etc, hanno migliorato la loro offerta, si sono aperti al mondo. E poi c’è da dire un’altra cosa: gli atteggiamenti negativi fanno sempre più scalpore di quelli positivi. Allora si parla molto del giovane o del turista che si fanno i selfie in gondola, ma c’è anche lo studente che silenziosamente viene a vedere spettacoli a teatro”.

Un interesse rinnovato nonostante la scuola, dove, secondo Lei, l’approccio con la materia artistica è ancora troppo “romantico”. Che cosa intende?

“A scuola ci insegnano che il genio è sinonimo di sregolatezza, insondabilità. Non abbiamo mai considerato l’arte come il risultato di un lavoro e non solo come espressione del genio, che comunque secondo me viene prodotto da un contesto ben preciso, non è qualcosa di effimero e insondabile. In realtà, il grande artista è prima di tutto un grande professionista. I geni del passato erano grandi manager: prenda ad esempio Giuseppe Verdi, che veniva definito ‘il poeta contadino’ ma che in realtà povero non è mai stato, aveva una mentalità agricola ma imprenditoriale. Verdi passava almeno metà del tempo ad occuparsi di affari, e solo l’altra metà la dedicava alla musica. Le racconto un aneddoto: mentre stava componendo l’opera Il Trovatore, ricevette la visita di un suo collaboratore e appuntò ‘comprati 20 buoi’ sullo stesso foglio dove c’erano i versi ‘D’amor sull’ali rosee’ di Leonora. Esiste ancora oggi copia di quel documento. Allo stesso tempo Verdi, e tutto il teatro d’opera, erano la più alta forma di letteratura dell’epoca. Verdi e Donizetti per me erano meglio dello stesso Manzoni”.

Sono i grandi classici della nostra cultura, quella che secondo qualcuno “non dà da mangiare”…

“E ovviamente non è così. Guardi noi: abbiamo i conti in ordine, nonostante lo Stato abbia dimezzato i finanziamenti rispetto a 10 anni fa, e quello che ci viene dato lo restituiamo attraverso le tasse versate dall’indotto, che secondo uno studio di qualche anno fa vale 60 milioni l’anno per la città di Venezia. Mai come nel 2018 siamo stati autonomi: ormai arriva dalla biglietteria un terzo dei nostri ricavi, cioè oltre 11 milioni di euro, mentre nel 2007 il botteghino ce ne fruttava solo 3. A completare il nostro budget, che è di 35 milioni l’anno, ci sono i 18 milioni del Mibac, i 2 del Comune di Venezia, i 500 milioni della Regione Veneto e poi circa 3 milioni da sponsorizzazioni e contributi privati. Questo è stato possibile anche grazie all’Art Bonus, lanciato quattro anni fa e che consente un credito di imposta, pari al 65% dell’importo donato, a chi effettua erogazioni liberali a sostegno del patrimonio culturale pubblico. Tra i principali partner segnalo Generali, Intesa Sanpaolo, ma anche diversi investitori internazionali”.

A proposito di investitori esteri, è divampata la polemica sulla possibilità che il governo dell’Arabia Saudita entri nel capitale della Scala di Milano con oltre 15 milioni. Lei che cosa ne pensa?

“Quindici milioni sono tanti, ma ci sono anche altri investitori, non sarebbe comunque una quota di maggioranza. E comunque io credo nella sovranità della musica italiana: non dobbiamo avere paura di nessuno, nemmeno degli arabi. Il problema è casomai politico, ma non riguarda l’italianità della Scala. Oggi si parla tanto di difesa della sovranità ma l’opera, come forma d’arte, è molto più sovrana degli stessi sovranisti. Pensate alla storia di Arturo Toscanini, il più grande direttore d’orchestra italiano, che era convintamente antifascista eppure fu considerato intoccabile anche durante gli anni del fascismo. Una volta, nel 1930, rifiutò di suonare l’inno a Bologna e fu aggredito fisicamente da un gruppo di fascisti. Lo stesso Mussolini, rendendosi conto della popolarità di Toscanini, fece di tutto per far rientrare l’episodio. Si rese conto che la propaganda nazionalista era meno importante della cultura nazionale. Comunque, il Sovrintendente Pereira è molto bravo, ha molti contatti in tutto il mondo e troverà una soluzione”.

A proposito, si sta facendo il suo nome per la successione di Pereira. Conferma?

“No comment”.

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