“Sull’efficienza energetica l’Italia è tra i Paesi europei più virtuosi: il nostro sistema dei certificati bianchi è sempre oggetto di interesse da parte di altri Paesi, anche se bisogna fare di più. Le linee guida per le aziende vanno aggiornate e anche per i condominii questa attività può essere anche un volano per ridurre il rischio sismico del patrimonio edilizio”. Parola di Alessandro Ortis, che è stato Presidente dell’Autorità per l’Energia dal 2003 al 2011, proprio negli anni in cui il sistema dei certificati bianchi, quello che prevede che i distributori di energia elettrica e di gas naturale raggiungano annualmente determinati obiettivi quantitativi di risparmio di energia primaria, è stato introdotto nella legislazione italiana.
Sono passati 12 anni e nel frattempo l’Italia ha insistito sull’efficienza energetica. Con quali risultati?
“Sia la crisi economico-globale che i rischi irreversibili del cambiamento climatico stanno gettando in molti Paesi nuove basi di consapevolezza sull’importanza di “fare” efficienza e risparmio energetico. L’Italia sta cercando di fare la sua parte e già oggi presenta un livello di intensità energetica, ossia di rapporto tra unità di energia e unità di Pil fra i più virtuosi, del 18% inferiore alla media Ue (più il valore è alto, più è alto il consumo e il relativo costo del convertire l’energia in Pil, ndr). Negli ultimi tempi, il recepimento della Direttiva sull’Efficienza Energetica ed il Piano nazionale d’Azione per l’Efficienza Energetica hanno fornito un primo quadro strutturato utile alla rimozione delle barriere che ritardano la diffusione dell’efficienza energetica, sia a livello nazionale che locale”.
Come si sono comportati invece i nostri partner europei?
“Circa lo scenario europeo, potrei rispondere con i dati, in miglioramento, del versante ovest della Ue ma penso sia più interessante spostare l’attenzione verso est, ricordando un documento del Segretariato della Comunità dell’Energia che offre una panoramica completa di tutti gli strumenti offerti dall’Ue per sostenere l’adozione di “buone pratiche” pro efficienza energetica. I primi riscontri sembrano incoraggianti anche nei Balcani. Ad esempio, la Serbia ha adottato un Regolamento, orientato all’efficienza energetica, che ha portato alla sostituzione di buona parte dell’illuminazione pubblica e alla riqualificazione impiantistica degli edifici pubblici. Albania, Kosovo e Ucraina hanno varato alcune leggi sull’efficienza energetica degli edifici che includono il lancio di “certificazioni”, il rispetto di standard minimi delle performance energetiche, la promozione di interventi edilizi riqualificativi e manutentivi e molto altro, naturalmente con un positivo trascinamento di opportunità per investimenti ed occupazione”.
L’efficienza energetica viene innanzitutto valutata sui risparmi economici che consente di realizzare alle famiglie, alle imprese e alla Pubblica amministrazione. E’ possibile valutare quanto ha consentito di recuperare, negli ultimi anni, in termini di costi?
“In meno di 10 anni, le famiglie italiane hanno investito quasi 28 miliardi di euro per ridurre gli sprechi e rendere più efficienti le proprie abitazioni, realizzando 2,5 milioni di interventi di riqualificazione energetica tra il 2007 e il 2015. Complessivamente nel periodo 2005-2015, con le misure per l’efficienza energetica sono stati risparmiati quasi 10 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio) l’anno, evitando 26 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica e 3 miliardi di euro di spese per importare fonti fossili. Va poi anche ricordato che i 4 miliardi di euro investiti nel 2013 per riqualificazioni energetiche negli edifici ha generato occupazione per 60.000 persone”.
Resta ancora un margine ampio da recuperare?
“Abbiamo un obiettivo nazionale indicativo di risparmio energetico determinato secondo la metodologia di attuazione della Direttiva 2012/27/UE: consiste in una riduzione, dei consumi di energia primaria, da 20 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep/anno) al 2020, pari a 15,5 Mtep/anno di energia finale. In particolare il meccanismo dei “certificati bianchi” dovrà garantire il conseguimento di un risparmio energetico non inferiore al 60% dell’obiettivo di risparmio energetico nazionale cumulato. Va rilevato che il costo/efficacia dei “certificati bianchi” è sette volte inferiore a quello delle detrazioni fiscali del 55/65%. Il restante volume di risparmio di energia è affidato alle misure di incentivazione vigenti”.
Il sistema dei certificati bianchi, diceva, va aggiornato. Come, secondo Lei?
“Per il settore industriale gli attuali sistemi di incentivazione, sono basati su procedure che possono essere necessariamente complesse, perciò sono molto attese le nuove linee guida. Una di queste potrebbe essere quella suggerita dal Comitato scientifico di Smart Energy Expo per passare da sistemi di incentivazione basati su agevolazioni concesse agli oggetti (impianti) ad agevolazioni concesse in funzione dei risultati conseguiti, a prescindere dalle modalità (gestionali o di investimento) utilizzate per conseguirli. L’obiettivo è di promuovere la riduzione dell’intensità energetica (rapporto energia/valore aggiunto) delle imprese, premiando sia le attività di progettazione che quelle di realizzazione di interventi di efficienza energetica”.
Come si sta muovendo il Governo da questo punto di vista?
“Sarà interessante vedere come le aziende sapranno sfruttare il piano industria 4.0, ora in discussione con la Legge di Bilancio. Al suo interno ci sono possibilità di forti ammortamenti a livello di strumenti mirati alla competitività delle aziende. Tra questi, mi auguro vi siano anche sistemi hardware o software per l’analisi, la misura e il miglioramento della gestione dei consumi energetici. Tra i tanti esempi di opportunità perseguibili nel settore dell’efficienza energetica voglio segnalarne una, forse poco valorizzata: il sostegno di percorsi che possano portare le aziende a certificarsi ISO50001, ovvero a dotarsi di un appropriato ed efficace sistema di gestione ottimale dei consumi di energia”.
Le famiglie, invece, godono del sistema di detrazioni fiscali per interventi legati all’efficienza energetica.
“In realtà, anche riguardo alle detrazioni fiscali occorrerebbe fare un salto di qualità sulla tipologia di interventi da incentivare. In Italia sono circa 6 milioni i condominii ovvero gli edifici ad uso residenziale che non sono costituiti da abitazioni singole; di questi quasi il 70% è stato costruito prima del 1976, anno in cui venne emanata la prima norma sull’efficienza energetica nell’edilizia. Attivare questo settore di intervento è di cruciale importanza non solo per i riflessi energetici ed ambientali ma perché potrebbe essere il volano per intervenire anche per ridurre il rischio sismico del patrimonio edilizio. Naturalmente si tratta di interventi che richiedono investimenti di importo rilevante e tecnologicamente qualificati, per promuoverli è indispensabile un intervento normativo finalizzato a superare pure alcuni ostacoli allo sviluppo della domanda, non solo attraverso un incremento della quota detraibile per tali tipologie di investimento, ma anche attraverso nuovi meccanismi che consentano la cessione del credito fiscale anche per i soggetti incapienti”.
L’efficienza energetica non si misura solo in termini di risparmio sulla bolletta. Ma anche, per esempio, di miglioramento per l’ambiente e di ambiente sostenibile. Questo però è un tema in cui è necessario muoversi in una condivisione globale degli obiettivi e il mondo, soprattutto dopo le elezioni Usa e la vittoria di Donald Trump che potrebbe sfilarsi dall’accordo di Parigi Cop21, sembra indirizzato verso crescenti incertezze. Cosa rischiamo? E se l’efficienza energetica è una “rivoluzione culturale” siamo vicini ad una svolta o ancora lontani?
“Innanzitutto bisogna ridimensionare la portata di quell’accordo, a prescindere dall’adesione degli Usa. Sarei infatti prudente sulla possibilità che gli accordi raggiunti nella Conferenza di Parigi rispondano adeguatamente all’esigenza di limitare le emissioni di gas climalteranti. La COP-21 di Parigi ha sì consentito di raggiungere un accordo mondiale, ma al prezzo di un radicale cambiamento dal punto di vista del metodo negoziale: infatti rispetto ad un meccanismo stile Protocollo di Kyoto, basato sulla ripartizione di un obiettivo globale attraverso un accordo multilaterale vincolante, quello di Parigi si basa su contributi volontari unilaterali da parte di ciascun Paese. Non si può quindi ragionevolmente sperare che l’accordo di Parigi abbia un esito risolutivo rispetto all’obiettivo del contenimento della temperatura globale entro i 2°C”.
L’Europa che ruolo può avere in questo delicato processo?
“L’Europa si candida ancora una volta ad essere leader nelle politiche di contrasto dei cambiamenti climatici, tuttavia le politiche europee presentano problemi che minano alla radice l’effettività degli obiettivi attesi. Secondo l’attuale contabilità delle emissioni, l’Europa sta infatti conseguendo sulla carta tutti gli obiettivi di riduzione, ma questi dati considerano solo le emissioni generate nel territorio europeo, trascurando quelle originate in territori diversi al solo fine di produrre beni e servizi esportati in Europa. La sostituzione di produzioni europee con importazioni dai Paesi emergenti ha indotto, oltre alla nota perdita in occupazione ed attività produttive, un forte incremento delle emissioni mondiali a causa della minore efficienza energetica ed ambientale dei Paesi in cui si sono localizzate tali produzioni”.
Come fare, dunque?
“La strategia che può permettere all’Europa di contemperare gli obiettivi ambientali, non rinunciabili, con quello di mantenere una solida industria manifatturiera deve essere basata innanzitutto sulla possibilità di rendere riconoscibile la maggiore qualità ambientale delle proprie produzioni attraverso la tracciabilità delle emissioni. Tale modello, anche in assenza di accordi globali, avrebbe il pregio di risultare attrattivo sia per gli altri Paesi sviluppati sia per le economie emergenti che potrebbero essere spinte, anche al solo fine di essere più competitivi nel mercato europeo, ad adottare analoghi meccanismi di tracciabilità delle emissioni indotte dai beni e servizi esportati. Forse su meccanismi di mercato di questo tipo potrebbe più facilmente convergere anche la nuova amministrazione Usa”.