X

Orario di lavoro e progetti Catalfo: errare è umano, perseverare diabolico

FIRSTonline

Molto poco ha recepito la Ministra Catalfo delle proposte e dei pareri avanzati da più parti in queste ultime settimane circa le politiche finalizzate a sostenere e facilitare la mobilità dei lavoratori: problema annoso e mal affrontato storicamente in Italia, e che sarà particolarmente grave quando, tra poche settimane, cesserà il divieto di licenziamento. Diamo un’occhiata alle proposte che in questi giorni la Ministra avanza in anteprima. 

La prima prevede che i lavoratori utilizzino parte dell’orario di lavoro per la formazione finalizzata alla ricollocazione, senza riduzione di retribuzione. A ciò dovrebbe provvedere il Fondo Nuove Competenze (730 mln) istituito dal Decreto Rilancio.  

Prima osservazione: questo riguarda tutti i lavoratori, nel senso che tutti devono avere un upgrade di formazione per muoversi meglio  domani nel Mercato del Lavoro, o solo quelli indiziati di essere in esubero?  

Nel primo caso l’intenzione è lodevole, ma le risorse risibili: i lavoratori dipendenti sono circa 18.000.000: i costi della Formazione per tutti difficilmente stimabili, ma un corso di 40 ore erogato con gli strumenti di Formazione Continua adesso costa 800 – 1.000 €., ossia tra i 15 e i 18 mld. per la teorica totalità dei dipendenti: irrisori i 730 mln stanziati.

La Ministra tuttavia dimentica che esistono i Fondi Paritetici Interprofessionali istituiti tra le Parti Sociali la cui mission è appunto la Formazione Continua dei dipendenti, cui viene attribuito lo 0,30% del monte salari pagato dalle imprese. Per dare un’idea del “volume di fuoco” soltanto Fondimpresa (il maggiore dei Fondi) ha erogato 3.260 milioni di formazione. Non occorre quindi inventarsi nuovi Fondi e magari relativi carrozzoni per gestirli(a proposito: non è che qualcuno abbia pensato che potrebbe essere un’occasione per impiegare i “navigators”?). Basterebbe eliminare una serie di vincoli normativi (p.es. la natura pubblicistica di risorse, che invece vengono versate e gestite da lavoratori e imprese) e restituire ai Fondi la titolarità sull’intero ammontare dello 0,30 (saccheggiato dallo Stato negli ultimi anni per finanziare Cassa Integrazione e altri strumenti di sostegno al reddito), per avere uno strumento flessibile, gestito bilateralmente dalle Parti Sociali, libero da pianificazioni burocratiche.  

Nel secondo caso non ci sarebbe molto da inventare: basterebbe far funzionare strumenti già esistenti: tutelare chi ha perso il lavoro con il NASPI (magari migliorato nel suo grado di copertura e nella sua durata, come propone in un suo DdL Nannicini); attribuire a queste persone l’Assegno di Ricollocazione (anziché donarlo a chi prende il Reddito di Cittadinanza); aprire a tutti gli operatori del collocamento, privati pubblici, sullo stesso piano, la possibilità di prendere in carico i percettori dell’Assegno per erogar loro i servizi utili a ricollocarli, a partire dalla riqualificazione, col vincolo che l’intero Assegno possa essere incassato solo a ricollocazione avvenuta. Un sistema già sperimentato con successo in alcune Regioni. 

Seconda osservazione: chi paga e perchè? E soprattutto quanto? Mediamente il costo di 1 ora di lavoro è 28,8 €. Moltiplicato 40 (ore ragionevoli di un corso utile) fa 1.150 €, moltiplicato 18 milioni fa circa 20 miliardi 736 milioni. Pagano le imprese? Paga la Catalfo? Ma soprattutto perchè? Le aziende che hanno ripreso non hanno nessun bisogno di ridurre l’orario di lavoro, quelle ancora in crisi hanno il personale ancora in CIG, e basta permettere ai lavoratori in CIG l’accesso alla Formazione dei Fondi Interprofessionali, senza burocrazie e oneri per lo Stato. 

Ma alla seconda proposta si capisce l’idea che c’è sotto: taglio dell’orario lavorativo a parità di salario, compensato dallo Stato, a condizione che l’azienda assuma nuovo personale. Facciano due conti: immaginiamo che in un’azienda si riduca l’orario ai dipendenti in misura tale da consentire l’assunzione di un nuovo lavoratore. Il costo (medio mensile) del nuovo lavoratore sarà 5.011 €, da spalmare in termini di contributo statale, sulla riduzione di orario degli altri lavoratori. Ora i lavoratori, vecchi e nuovi, si divideranno la “torta” del reddito da lavoro, ma la divisione è drogata: o la torta aumenta, o quando finisce il contributo pubblico le fette saranno più piccole. Come infatti è sempre accaduto nelle esperienze di “lavorare meno per lavorare tutti”. E poi: per quale ragione un’impresa, avendo dipendenti che lavorano meno ore, dovrebbe assumere nuovi lavoratori anziché chiedere a quelli in forza di fare un po’ di straordinari (con reciproca soddisfazione…)?

Tuttavia la proposta sembra pensata per incontrare il consenso dei Sindacati, i quali argomentano che orari più brevi potrebbero essere compensati da una maggiore produttività. La produttività del lavoro, però, in Italia è cresciuta negli ultimi 20 anni dello 0,3% annuo, meno di un quinto della media europea: per quale ragione dovrebbe crescere in ragione di una diminuzione delle ore lavorate pro capite? Sembra di intravedere un retropensiero per cui gli imprenditori (“prenditori” per il Partito di Catalfo) vanno in qualche modo “costretti” a fare investimenti e innovazione: diminuire le ore lavorate pro capite evidentemente  è considerato un astuto escamotage per forzarli.  

Del resto la sinistra francese rimase vittima dello stesso abbaglio: al suo primo mandato Mitterrand impose per legge la riduzione di orario, ma dopo qualche tempo ci si accorse che il provvedimento non aveva creato occupazione, ma tempo libero, cosa piacevole (almeno per chi ha i soldi per goderselo…) ma ininfluente ai fini della crescita economica. 

Viene (giustamente) segnalata l’esigenza di incentivare l’occupazione femminile ma, al di là dell’usato elenco di inadeguatezze strutturali cui rimediare (asili, conciliazione dei tempi di lavoro, ecc.) c’è una sola proposta nuova: incentivi alle imprese che riducono il differenziale retributivo tra donne e uomini. Un’ipotesi che si presta a varie obiezioni: non si preoccupa di individuare le ragioni di questo gap e darsi l’obiettivo di rimuoverle; è penalizzante per le aziende che già garantiscono la parità salariale del tutto a spese loro e senza incentivi pubblici; richiede certificazioni complicate, soprattutto nelle aziende dove il Sindacato non esercita un controllo. Se si vuole migliorare il reddito delle lavoratrici mettendoci soldi pubblici e con risultati certi e immediati allora è più efficace la proposta, avanzata da alcuni economisti, di una tassazione differenziata sui redditi da lavoro dipendente delle donne; il che tra l’altro ridurrebbe il costo del lavoro femminile con possibili ricadute positive sull’occupazione. 

Infine si riaffaccia per l’ennesima volta la “staffetta generazionale”, per cui si incentiva un lavoratore e l’azienda perchè il primo esca (in pensione o con un accordo di buonuscita) e l’impresa assuma al suo posto un giovane. Un esperimento tentato più volte sia in alcune Regioni sia a livello nazionale, con esiti scarsissimi, per evidenti ragioni: perchè un dipendente che è ancora in condizione di lavorare dovrebbe anticipare l’uscita e quindi accettare un taglio del reddito? A meno che abbia interesse a che venga assunto “quel” giovane (un familiare, il più delle volte). Oppure nel caso in cui (effettivamente verificatosi in qualche caso) l’impresa voglia ringiovanire parte dell’organico in vista di una forte innovazione tecnologica. Ma in questo caso l’impresa si fa carico dei costi relativi a chi esce, senza che sia decisivo il contributo di risorse pubbliche. 

In una frase: se si vuole occupazione occorrono investimenti (infrastrutture, tecnologia soprattutto digitale) e politiche del lavoro. Il resto fa propaganda e invadenza della burocrazia.  

Related Post
Categories: Commenti