Il ministro dell’economia ha cercato di resistere fino all’ultimo, ma alla fine ha dovuto cedere: l’iva è stata aumentata per compensare misure che non erano digeribili dall’elettorato di riferimento della maggioranza. L’intento condivisibile del ministro era di conservare l’aumento dell’iva come strumento della riforma fiscale e dell’assistenza. In tal caso, poteva esserci la speranza che l’aumento dell’iva venisse utilizzato a compensazione della riduzione dei contributi sociali a carico delle imprese.
L’iva è una imposta sui consumi che è neutrale nei suoi effetti sulla competitività-prezzo dei beni commerciabili internazionalmente: si carica sulle importazioni ed è rimborsabile alle esportazioni poiché saranno i paesi di destinazione che la caricheranno.
Ma se un maggiore prelievo tramite iva va a compensare una riduzione dei contributi sociali, in particolare quelli sui beni commerciabili a livello internazionale, il risultato è che, a parità di gettito, i prezzi delle nostre merci possono ridursi nella misura dei minori contributi sociali poiché il maggiore gettito indotto dall’iva non incide sul prezzo delle esportazioni.
A questo punto tutto ciò non è più proponibile? Si attendono provvedimenti per la crescita; uno di questi potrebbe essere la fiscalizzazione degli oneri sociali a carico delle imprese per un ordine di grandezza di 4 miliardi di euro (poco più dell’uno per cento delle retribuzioni lorde del settore privato). Ovviamente non potrebbe essere adottato in disavanzo. Due miliardi potrebbero venire dal ripristino sia della tassazione locale sugli immobili (a fronte di analogo aumento delle riduzioni dei trasferimenti ai comuni, in cambio della piena libertà di fissare l’aliquota purché superiore a un determinato ammontare – anche il federalismo fiscale se ne gioverebbe), sia della tassazione Irpef sulle rendite catastali della prima casa.
Altri due miliardi potrebbero derivare estendendo l’aliquota del 20 per cento anche ai redditi da interesse sui titoli di stato. Si tratta di imposte che non incidono sulla formazione dei prezzi, ma sono modalità di finanziamento certamente non gradite all’elettorato. Più che ovvio. Le scelte politiche, comunque, consistono nell’evitare di essere costretti nel tempo a metterne in atto di ancor più pesanti.
È vero gli elettori non saranno mai in grado di valutare l’entità dei disastri evitati; accettare questo rischio è proprio la funzione di una classe politica che possa considerarsi tale.