La cronaca di un disastro annunciato. Oppure le peggiori Olimpiadi dei tempi moderni. Fate voi, ma le etichette apposte sulla schiena di Rio 2016, come su una maglietta sgualcita ad un grande magazzino, rischiano di essere limitanti, incapaci di rendere la portata umana del disastro.
Un disastro atteso come si attende un’alba, come fosse ineluttabile, perchè, guardandosi in faccia, sappiamo che lo spreco continua ad essere abitudine, in un Paese che, come direbbero i sussidiari di Geografia, è un gigante con i piedi di argilla: politicamente instabile, corrotto, incompiuto.
Incompiuto come sono incompiute le infrastrutture, i villaggi olimpici che cadono a pezzi e gli impianti a metà, in una corsa persa contro il tempo per produrre cattedrali al centro di un deserto urbano, luoghi di un culto inutile e non praticato, ma costosissimo. E poi c’è lo sport, in una distonia tra paese ospitante ed evento mai cose forte. Mai così stridente. Le stelle miliardarie accolte in strutture fatiscenti in una città disastrata, per tre lunghissime settimane.
Ma anche lo sport ha smesso di indossare il suo vestito migliore. L’abito da festa è sgualcito dalla fine della Russia, la cui atletica è stata cancellata da uno scandalo senza fine, e dall’ombra del doping che si allunga sui più grandi atleti del mondo.
Ma aldilà dell’abito sgualcito, lo sport arriva a Rio un po’ dimesso, sottotono. Senza un Phelps che attenta a tutti i record, senza l’hype mondiale per nove lunghissimi secondi di Bolt. Senza Lebron e senza Federer. Sembra un’Olimpiade residuale, la celebrazione di grandi vecchi all’ammazzacaffè in attesa che la next big thing dello sport faccia la sua comparsa tra un mare di lustrini, mentre gli occhi del Brasile saranno puntati, come sempre, sulla cresta ribassata di Neymar, in cerca almeno di quell’ultimo alloro calcistico mancante, con retrogusto di redenzione.
Sembra, quest’Olimpiade, le nozze d’argento di una coppia che non riesce a fare altro che litigare. Un evento necessario e insieme inopportuno. Una bolla glitterata in uno stato che ha dichiarato default, e che ha ricevuto soldi solo per i Giochi, ma non per tutto ciò che serve a mandarli avanti. Uno stato che seppellisce sotto la terra nella sua vergogna, nella riedizione della distonia sociale che ha condito i mondiali di due anni fa e che arrederà questi giochi, tra poliziotti non pagati, rumorosi “benvenuti all’inferno” e un senso d’ingiustizia sociale difficile da ridurre ad una forma computabile.
Ma anche quel rumore, se non lo è già, è destinato a diventare rumore di fondo, un contorno inafferrabile e lontano, un’eco di urla lontane che non impedisce agli invitati di sorridere durante la festa. La parte peggiore di ogni festa, però, è quando tutti se ne vanno, e si rimane soli a sparecchiare gli avanzi. Nessuno vuole essere a Rio, il giorno dopo.