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OLIMPIADI -5 – Il sogno olimpico di Oscar Pistorius, il “pianista” dalle dita artificiali

Su Oscar Pistorius, l’atleta disabile che correrà in pista alle Olimpiadi di Londra 2012, se ne sono dette molte. Il mondo dello sport si è – inevitabilmente – polarizzato, distinguendosi in due gruppi: gli apostoli del rigore tecnico-scientifico e coloro che, con una decisa vena romantica, vedono nella partecipazione del “blade runner” ai Giochi olimpici un segnale forte alla società sull’integrazione dei disabili.

Ma nello sport, quando la competizione arriva ai massimi livelli e catalizza l’attenzione mediatica, è difficile distinguere lo spirito autenticamente olimpico dal fine commerciale. E’ una polemica trita e ritrita, quella dell’ipertrofia economica e televisiva dello sport contemporaneo, ma in questo caso non si può ignorare che la partecipazione di Pistorius assuma un significato “politico” che travalica i confini della gara tout-court.

Al di fuori delle posizioni pubbliche dei big, condizionate da una vena “politically correct” forse a volte un pò stiracchiata, molti atleti considerano il pass di Pistorius all’Olimpiade uno strappo alle regole dello sport. Per una semplice ragione: nessuno potrà mai, in realtà, sapere se quelle protesi in carbonio costituiscano un vantaggio o un handicap per l’atleta sudafricano.

Non avendo egli mai corso con gambe naturali, manca la controprova e il termine di paragone: che tempi otteneva prima dell’innesto delle nuove leve ipertecnologiche? Dunque qualsiasi studio scientifico in merito, per quanto dettagliato e sofisticato, non potrà essere verificato empiricamente, violando il principio di falsificazione su cui Karl Popper fonda la validità delle leggi scientifiche.

Su queste basi, la decisione del Comitato Olimpico sudafricano di convocare Pistorius è facilmente contestabile. Anche perchè in questa occasione le regole sui tempi minimi per la qualifica sono state interpretate in maniera piuttosto elastica. E’ inoltre facile immaginare la delusione dell’atleta di cui Pistorius ha preso il posto nel team nazionale. Competizione sleale?

C’è però anche un’altra prospettiva di analisi, più complessa e comprensiva, meno rigida e più consapevole. Pistorius le gambe non le ha mai avute, gli sono stati amputati piedi e tibia all’età di undici mesi, a causa di una malformazione congenita. E’ vero che la partecipazione di questo atleta all’Olimpiade scontenta i rigoristi, ma chi fa sport sa bene quanto sia prezioso il corpo per un’atleta e quanto ricco di percezioni ogni movimento compiuto nel gesto agonistico. Che non è riflesso animalesco, è anzi frutto di attento studio, ponderazione, riflessione, ripetizione, assimilazione neurologica.

Paragonare Pistorius a un pianista con le dita artificiali non sembra affatto un’esagerazione. E’ anzi un modo efficace per immaginare lo sforzo, anche intellettuale, di chi debba utilizzare il proprio corpo per trasmettere un impulso cerebrale che non trova, nel caso del venticinquenne sudafricano, la terminazione naturale: i piedi e il terreno calpestato.

L’impatto con la pista restituisce un impulso uguale e contrario alla forza impressa dalla falcata, impulso necessario all’atleta per percepire ogni minima variazione dell’equilibrio dinamico del proprio corpo, variazione alla quale il velocista si adegua esattamente come un pianista durante il concerto, quando deve adattarsi ai tempi dettati dai violini.

Se vi sembra impossibile immaginare Vladimir Horowitz eseguire, con dita artificiali, i concerti per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff, ricordatevi che Pistorius nel suo campo è arrivato – con i dovuti distinguo – a riuscire nell’impresa. Il problema, semmai, è mediatico. Ed è dovuto all’incapacità degli organi istituzionali di comunicare al pubblico il significato della scelta. Se è ovvio che l’ammissione di Pistorius ai Giochi olimpici ha un significato politico, il Comitato sudafricano avrebbe dovuto senza vergogna e timori ammetterlo apertamente, con un doveroso appoggio del Cio. Si è invece limitato a ricordare che “ognuno degli atleti ha superato difficili criteri di qualificazione”. Una banalizzazione.

Dunque le autorità sportive sovranazionali hanno perso un’occasione d’oro per ricordare ai tanti spettatori e sponsor i valori decoubertiniani che fondano lo spirito olimpico. Lo sport si è quindi vergognato di veicolare messaggi di pregnanza politica e sociale, in una fase in cui nel professionismo, a causa del doping e dell’invasione di campo del business, di limpido e genuino c’è ben poco.

Le difficoltà che i disabili devono quotidianamente affrontare sono spesso dimenticate, la “parificazione” ai “normodotati” è spesso fittizia. In Italia, addirittura, hanno assunto la denominazione, ipocrita e falsa, di “diversamente abili”, come se l’essere portatori di handicap sia qualcosa di cui vergognarsi e da celare – che magari facilita anche il taglio dei benefit sociali – invece che uno svantaggio oggettivo nei confronti della società che corre a pieno regime.

Certamente, i disabili tiferanno per Pistorius, loro alfiere nonostante il rifiuto di attribuirgli, ufficialmente, l’onere e l’orgoglio di rappresentare una fascia sociale debole e bisognosa di protezione. Pistorius campione dei disabili, ma non troppo: qualcuno potrebbe indispettirsi.

Eppure, lo sport ha più di una volta espresso valori che trascendono la mera competizione sul campo, come in occasione della sfida tra la nazionale cubana di baseball e la squadra professionista di Baltimora, nel 1999. Per non dimenticare i leggendari duelli tra il dream team di basket statunitense e la nazionale sovietica, durante gli anni bui.

Ma i tempi sono cambiati e le discipline sportive hanno perso la capacità di veicolare messaggi più complessi. L’investitura “istituzionale” di Pistorius, quale rappresentante degli svantaggiati nell’olimpo dei superatleti, sarebbe stato un bel riscatto. Per ora sembra un’occasione mancata.

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