La prima domenica di novembre è il giorno della Maratona di New York. L’anno scorso sono stati 3.972 gli italiani (uomini e donne) che vi hanno partecipato. Tra loro anche il vice presidente della Camera Maurizio Lupi che ha concluso con un più che dignitoso tempo al disotto delle 4 ore. E ottimi tempi li hanno in passato fatti anche il cantante Gianni Morandi e l’ez ciclista Davide Cassani. Anche quest’anno, nostante la crisi economica, saranno più di tremila i nostri connazionali che si ritroveranno domenica mattina, nella base militare di Staten Island, in attesa che, alle 10 e 10 venga dato il via alla più amata manifestazione podistica dell’anno.
Sono dati significativi per un popolo che ha fama di essere abbastanza sedentario. Un luogo comune che potrebbe finalmente essere sfatato se si considera che dal 2000 ad oggi sono più di 20mila gli italiani che, almeno una volta in un anno, corrono i 42 km e 195 metri di una maratona. Quanto all’appuntamento newyorchese poi si registrano ben quattro vittorie di atleti itliani (2 volte Pizzolato e poi Gianni Poli e Giacomo Leone) e una in campo femminile (Franca Fiacconi) oltre a un secondo posto (Laura Fogli).
Per tutto il popolo della corsa il sogno è andare a correre, una volta nella vita, a New york. Perchè? In fondo a New york, come a Reggio Emilia, la distanza da percorrere è la stessa, la preparazione atletica idem, i chilometri da macinare in allenamento altrettanto. Eppure a New york tutto è diverso: c’è il fascino della città, ma c’è soprattutto la partecipazione della città, il sostegno che arriva soprattutto a coloro che sono in coda alla corsa. Per tutte le 26 miglia del percorso il podista, soprattutto il più scarso, non è mai (o quasi mai) solo.
Cominciamo dal tempo massimo. Nelle grandi maratone di solito il tempo massimo (quello entro il quale arrivare per essere classificato) è tra le quattro e le 6 ore. A New york è di 8 ore e mezzo. Insomma, è alla portata di chiunque abbia un decente allenamento, almeno sulla resistenza. E poi c’è tutta una città che si stringe attorno alla corsa. Qualcosa di impensato e fantastico per chi come i nostri forzati delle corse domenicali sono abituati a prendere ogni genere di insulti dagli automobilisti, infastiditi per una manifestazione agonistica che rallenta il traffico.
La maggior parte dei podisti italiani (il riferimento non è ai top runners, ma al popolo dei “tapascioni”, come si chiamano gli ultimi della fila) parte per New York il giovedì. In modo di avere almeno un paio di giorni per adeguarsi al nuovo fuso orario. Tutti sono già in possesso del pettorale, per ottenere il quale hanno dovuto iscriversi almeno sei mesi, acquistando il relativo pacchetto di viaggio messo a disposizione da alcune agenzie che operano in materia, hanno fatto le canoniche sette settimane di allenamento specifico (ripetute lunghe e brevi, variazioni di ritmo, corsa media, lunga e in alcuni casi lunghissima), e non vedono l’ora che arrivi domenica.
Il giorno dopo, venerdì, a Central Park, dove domenica si concluderà la maratona, c’è il tradizionale allenamento degli italiani: una breve sgambatura a ritmo molto blando (tra i 6 e i 6 e mezzo a Km), giusto per allentare la tensione del pre-gara e mantenere un minimo di confidenza con la corsa. Poi si va a perfezionare la propria iscrizione e a ritirare il pacco gara al centro maratona. Intanto si comincia a bere tanta acqua perchè il vero rischio per il fisico, in una gara di più di 40 chilometri, è quello della disidratazione: e il podista deve bere, non perchè ha sete, ma perchè non deve avere mai sete. A quel punto chi vuole può partecipare ad una ricognizione in torpedone sul percorso. La quale, organizzata dai soliti tour operator ad hoc, è particolarmente utile, perchè la domenica sarà confortevole correre in luoghi che, almeno approssimativamente, si conoscono.
Il sabato mattina poi c’è la presentazione ufficiale della corsa nel piazzale antistante il palazzo dell’Onu. Un appuntamento che gli italiani in gran parte snobbano, ma che è molto divertente, dal momento che i podisti accorrono, spesso vestiti con il colori nazionali: straordinari gli olandesi, tutti rigorosamente in arancione. Si gioca, si scherza e si scambiano magliette tra atleti dei diversi paesi. Poi tutti di nuovo in albergo a bere acqua e mangiare pasta per accumolare il carico del glicogeno (la benziana del maratoneta). Di solito nel pomeriggio si svolgono alcune riunioni teniche: esperti ed ex atleti di rango consigliano ai tanti tapascioni il modo migliore di approccio alla gara. Chi la mattina dopo dovrà gareggiare va poi a letto molto presto. Non prima però di aver adempiuto alcuni fondamentali adempimenti: scelta dell’abbigliamento con il quale correre, sulla base delle previsioni meteo; sistemazione sulla maglietta di gara del pettorale con le quattro spillette di ordinanza, sistemazione nelle stringhe delle scarpe del chip (un aggeggino che consentirà di prendere i tempi di partenza, di passaggio e di arrivo, ma soprattutto di controllare che l’atleta segua il regolare percorso senza tagliare. Ed eccoci finalmente alla mattina della gara: sveglia alle 4, colazione alle 5 (gli alberghi sono preparati all’evenienza) e partenza entro le 6 con appositi autobus dell’organizzazione (le misure di sicurezza sono imponenti) verso Staten Island, e la base militare luogo del raduno di partenza. E qui si tratterà di aspettare, aspettare, aspettare. Naturalmente tutti gli altleti saranno molto coperti, almeno fino a mezz’ora prima della partenza, quando si dovrà consegnare agli organizzatori la sacca (trasparente per motivi di sicurezza) con tute e giacconi. Si riprenderà all’arrivo E’ quindi necessario che gli atleti si siano portati anche una tuta o maglione vecchio da buttare solo al momento della partenza. Apposite organizzazioni di volontariato raccoglieranno tutto destinandolo ai barboni e ai senza tetto di New york.
Finalmente siamo alle 10 e 10 e si parte: o meglio partono i top runner e quelli che hanno i migliori numeri di pettorale. Perchè, nonostante ci siano tre linee di partenza (la maratona di unificherà soltanto dopo una decina di chilometri) tra la partenza del primo e dell’ultimo concorrente passerà almeno una mezz’ora. Niente paura, perchè grazie al chip ciascuno avrà il suo “real time”. La corsa si svilupperà per cinque distretti della città: Staten Island, Brooklin, Queens, Bronx , Manathan. Bellissimo il passaggio sul ponte di Verrazzano subito dopo la partenza. Di lì si arriva a Brooklin. L’attraversamento di questo distretto dura quasi 20 chilometri. C’è grandissima partecipazione di pubblico che incita gli atleti, soprattutto gli ultimi. Con l’eccezione di quello che i maratoneti chiamano il miglio del silenzio: l’attraversamento (verso il decimo chilometro) di un quartiere abitato da ebrei molto tradizionalisti, che non nascondono il proprio assoluto disinteresse per la maratona. Uno dei momenti più suggestivi della gara è l’arrivo a Manathan attraverso quello che è il passaggio forse più impegnativo della gara: il ponte del Queensboro. Sui ponti non c’è pubblico e quindi manca l’incitamento della folla e quindi non si sente altro che il rimbombo e la risonanza dei passi dei podisti. Poi però, alla fine si comincia a senire un progressivo rumore di grida, che diventa un vero e proprio boato quando si lascia definitivemnte il ponte arrivando ad Harlem. Siamo al ventiseiesimo chilometro. E’ il momento di fare ricorso agli integratori e alle malyodestrine per eviare che i muscoli soccombano all’aggressione dell’acido lattico. La corsa ora si svilupperò tutta a Manathan, con un lungo passaggio all’interno del Central Park, dal quale si uscirà per attraversare Columbus circle (meno di un chilometro), per poi rientrare per gli ultimi 300 metri di gara. La gara è finita. L’atleta viene subito rifocillato con bevande calde, festeggiato, coperto da apposito foglio termico. Poi, ancora tre quattrocento metri, per riconsegnare il chip ed essere insignito della medaglia di “finisher”. Chi laq sera si presenterà in un ristorante di Manathan con quiel prezioso riuconoscimento avrà vino e birra gratis.
Come, forse, si sarà capito il sottoscritto ha fatto la maratona di New York. Anzi, l’ha fatta per due volte: nel 2005 e nel 2006. Alla fine di una dignitosa “carriera” di tapascione con dieci maratone portate a termine. A New York ho fatto i peggiori tempi di sempre. Un po’ perchè ero a fine carriera e gli acciacchi (compresa una protesi all’anca) si sono fatti sentire, un po’ perchè non avevo curato, come in altre occasioni, la preparazione specifica. Ma io sono convinto che quella di New York, oltre che una gara, è una festa. E le feste bisogna godersele anche a costo di andare piano. Per fare il tempo meglio andare a Reggio Emilia, Berlino o Rotterdam. Per citare alcuni dei percorsi che vengono considerati più veloci. Ma attenzione 42 chilometri sono 42 chilometri! E quindi, festa o non festa la preparazione dovrà essere comunque impegnativa.