Dalla plastica abbandonata in mare a nuovo petrolio. Con un processo chimico, la pirolisi, attivato usando un altro pericoloso materiale di scarto, le ceneri prodotte dagli impianti di gassificazione e combustione del carbone. Un miracolo del riciclo, grazie ad un processo messo a punto dai ricercatori dell’Enea, in grado di riconvertire più del 90% della plastica recuperata in mare (che come sappiamo deriva in maniera massiccia proprio dal petrolio) in nuovo oro nero, assai pregiato perché particolarmente ricco di idrocarburi. Utilizzabile a sua volta per produrre beni preziosi: combustibili, prodotti chimici di grande qualità, ma anche nuove plastiche, vernici, solventi e molti composti organici. Il tutto in maniera più pulita e con una maggiore “resa” nel processo di trasformazione rispetto a ciò che si può fare con il petrolio originale.
Un primato nella corsa all’economia circolare, messo a segno dall’italianissima Enea nell’ambito del progetto europeo interregionale Italia-Croazia “Netwap” sulla riduzione e gestione innovativa dei rifiuti. Il tutto con la certificazione dell’American Chemical Society che ha pubblicato i risultati della tecnologia messa a punto dall’Enea nella sua rivista scientifica on-line ACS Sustainable Chemistry & Engineering.
La corsa ad arginare i danni
La posta in gioco è davvero importante, e inquietante. Il mondo produce rifiuti di plastica per 400 milioni di tonnellate l’anno e si fa fatica a rendere operative le norme internazionali che dovrebbero arginare la principale fonte del fenomeno, ovvero il ricorso a imballaggi o attrezzi di plastica monouso. E così almeno 10 milioni di tonnellate finiscono negli oceani creando persino dei veri isolotti galleggianti (plastic soups) che vagano tra i continenti, intralciano la navigazione e rappresentano solo l’aspetto più visibile ed eclatante degli innumerevoli problemi creati da quello che è il principale fattore di inquinamento dei grandi mari.
Basti pensare che il tempo “naturale” di degrado della plastica nell’ambiente supera anche i 600 anni. Il mare accelera il processo solo un po’, mentre – come si sottolinea nella documentazione diffusa dagli organizzatori di Ecomondo, la Fiera ambientale che si è tenuta nei giorni scorsi a Rimini – nel mare gli oggetti di plastica si frammentano diventando microplastiche di dimensioni inferiori ai 5 millimetri che combinano ulteriori guai: attraggono e assorbono le altre innumerevoli sostanze inquinanti disperse negli oceani, come pesticidi, fertilizzanti, scarichi industriali, detersivi e cosmetici. Insomma, un aggregante di altri inquinanti che poi finisce nella catena alimentare: pesci, mammiferi, uccelli, uomo. Stranoti gli effetti nefasti sull’alimentazione, sul metabolismo generale, sui cicli ormonali e via dicendo.
Verso il riciclo a chilometro zero
Fino ad oggi il riciclo e smaltimento delle plastiche abbandonate si è basato prevalentemente su processi meccanici, che nel caso delle plastiche abbandonate sulle spiagge o direttamente in mare si scontrano con una serie di difficoltà aggiuntive, dovute alla presenza di materiali estranei. Ma ecco la pirolisi catalitica, che consente di decomporre i rifiuti scaldandoli a oltre 400 gradi in assenza di ossigeno. Può essere considerata “una delle opzioni più valide per il trattamento della plastica marina perché è in grado di gestire grandi quantità di rifiuti altamente eterogenei e non pretrattati” sottolinea Riccardo Tuffi, il ricercatore Enea artefice della ricerca insieme ai colleghi Lorenzo Cafiero e Doina De Angelis.
Riciclo nel riciclo, addirittura a chilometro zero. “Piccoli impianti di pirolisi installati nei porti potrebbero addirittura produrre carburante per le imbarcazioni a partire proprio dalla plastica recuperata in mare” azzarda Tuffi.