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NUOVE STRATEGIE – L’Eni di Descalzi sterza sul petrolio: assomiglierà a Exxon, Chevron e Bp

Eni diventerà più simile a Exxon, Chevron e Bp – L’Ad Claudio Descalzi presenterà la nuova strategia del gruppo con la semestrale di fine luglio. Obiettivo: risollevare la produzione e generare più cassa da investire nell’esplorazione e estrazione oil&gas. Accelerata sulla rinegoziazione dei contratti con Sonatrach, ridimensionamento nella raffinazione.

NUOVE STRATEGIE – L’Eni di Descalzi sterza sul petrolio: assomiglierà a Exxon, Chevron e Bp

Più petrolio e idrocarburi per l’Eni. Più simile a Exxon, Chevron o Bp (o all’Agip, come qualcuno ricorderà) che non all’attuale conglomerata. Le prime mosse di Claudio Descalzi, nuovo amministratore delegato del gruppo, fanno capire che la sterzata verso il modello della oil&gas company che il mercato chiede a gran voce e da parecchi anni, è già avviata. E non sarà marginale. Il delfino di Paolo Scaroni, come qualcuno ha voluto dipingerlo, in realtà ha preso il largo. Senza scosse ma con decisione. Già la fulminea riorganizzazione della struttura organizzativa interna, a tre settimane dal suo insediamento, ha fornito un primo assaggio del nuovo corso. Poi, proprio in questi giorni, lo stop i sindacati sulla raffinazione ha fatto capire che questa volta il cambiamento sarà forte, per affrontare un nodo che è già costato all’Eni 3,5 miliardi dal 2008. 

Anche la chimica sarà passata al setaccio. Il resto si capirà con maggior chiarezza tra una quindicina di giorni quando, il 31 luglio, il nuovo Ad presenterà a Londra la semestrale e un primo aggiornamento della strategia che sarà poi affinata nel corso dell’anno. “Più cassa, più petrolio, più utili” è la sintesi estrema delle richieste del mercato dopo l’ultima Strategy presentation di febbraio sul piano 2014-2017. Per la sesta, tra le major internazionali, con oltre il 60% del capitale in mano agli investitori istituzionali, si tratta di un messaggio da non lasciar cadere nel vuoto. E comunque Descalzi – che ha guidato l’Esplorazione e Sviluppo negli ultimi cinque anni e lo ha fatto da Londra, a contatto diretto con le Big Oil e il mercato – sembra proprio intenzionato a raccoglierlo.

Passato e futuro. La sostanza è che l’Eni ha semplificato la catena di gestione, accorpato le vecchie tre divisioni (quasi delle società) nella corporate e costruito le nuove business unit attorno al perno centrale dell’esplorazione e sviluppo. E’ da qui che viene tutto l’utile netto di gruppo pari a 5,2 miliardi del 2013, frutto di un utile operativo di 14 miliardi nell’E&P mentre tutti gli altri settori hanno solo contabilizzato perdite: 663 milioni nella vendita e trasporto di gas e elettricità, 482 milioni nella raffinazione, 386 milioni nella chimica. Si cambia per generare più cassa, investire in modo selettivo sulle attività redditizie (quindi sulla produzione di idrocarburi) e garantire l’alto livello di dividendi a cui Paolo Scaroni ha abituato gli azionisti nei suoi 9 anni di regno sul gruppo. 

E qui il vero nodo da affrontare è la ripresa della produzione che invece, nonostante le scoperte record annunciate negli ultimi due anni (prima fra tutte, il giant in Mozambico), è diminuita di 150.000 boe/giorno dal 2009. Se a dicembre 2013 Crédit Suisse (Cs) prevedeva “un altro anno, il 2014, di incertezza sul cash flow”, a fine febbraio si trincerava dietro un “vedere per credere” di fronte alla promessa del management di generare “robusto cash flow operativo” nel breve-medio termine. “I rischi – aggiungeva il report – sono nella produzione upstream, inferiore alle attese”. Per una vera ripartenza, progetti come Goliat nel mare di Barens e il gigante Kashagan, più volte rinviati e previsti rispettivamente tra metà e fine 2015, “devono entrare in produzione” sollecitavano gli analisti di Cs. Nell’attesa – concludevano – meglio sospendere il giudizio. Meno severo Merril Lynch che a giugno, più prosaicamente, vede nel rendimento del 5,5% sul dividendo il lato più attraente del Cane a sei zampe rispetto ai concorrenti, fermi sul 4,5%. 

Un livello alto e non coperto dalla gestione corrente ma garantito tuttavia dai 2 miliardi incassati con la cessione delle quote di minoranza in Galp e Snam e dal potenziale di una vendita di Saipem ormai nel novero delle cose possibili, osserva ancora Merrill Lynch. Ma cosa accadrebbe se ci fosse un deterioramento delle condizioni generali o se i margini del Gas&Power, della raffinazione e della chimica continuassero a deteriorarsi? A questa domanda Claudio Descalzi sembra deciso a rispondere con più business e meno finanza, riposizionando cioè l’Eni sull’attività core.

Rami da tagliare. Nella nuova strategia la spesa sarà selettiva e rivolta ai progetti in grado di assicurare redditività. Quindi sì ad una ulteriore vendita del 15% dei diritti in Mozambico per finanziare lo sviluppo operativo del giacimento, sì a ridurre di 1 miliardo (in tre anni) le inefficienze di gestione. Sì ad accentuare l’attenzione verso gli assets in Oriente (Vietnam, Pakistan, ma anche Australia) e alleggerire l’impatto sui conti dei fronti di crisi in Africa, come Libia e Nigeria. Significativo, nel suo piccolo, il taglio delle spese per la comunicazione (da 200 a 100 milioni e solo per promuovere il prodotto). Sì infine ad un Eni meno condizionato dall’import di gas che ha penalizzato in questi anni i conti del gruppo. 

Parlare di allontanamento dalla Russia è forse troppo ma sicuramente il legame di Descalzi con Mosca è meno stretto di quello che aveva Scaroni. I contratti take or pay con Gazprom sono stati rinegoziati e altrettanto quelli con Statoil; l’accelerazione riguarda ora il negoziato con Sonatrach che è stato avviato. Ma Descalzi sembra voglia prendere per le corna il toro della raffinazione in profonda crisi a causa del surplus produttivo di 120 milioni di tonnellate di raffinato in Europa. E’ di due giorni fa la rottura con i sindacati su Gela e Marghera e la possibile revoca di 700 milioni di investimenti in Sicilia. A rischio anche Priolo e Taranto. 

“Se è vero che l’Eni perde sulla raffinazione per effetto anche dei suoi mancati investimenti nel settore, è altrettanto vero che l’Italia ha bisogno degli investimenti e della presenza industriale di Eni. Non possiamo assistere inerti ad un grande gruppo che rischia di uscire dall’industria”, ha detto Emilio Miceli, segretario generale della Filctem-Cgil. Non sembrano esserci tuttavia alternative anche se l’Eni cercherà di riconvertire in qualche modo gli impianti. Gli esperti di settore sono convinti che il taglio del 20% della capacità di raffinazione finora deciso, sia insufficiente. E soprattutto che non vi siano alternative: le produzioni lasceranno l’Italia e l’Europa, se non l’hanno già fatto.

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