L’esito referendario (dai dati ancor provvisori del Ministero dell’Interno del 14 giugno) sul nucleare è inequivocabile: 54,79% di votanti degli aventi diritto; SI, ovvero contrari al nucleare, 94,05%. Un esito ancor più netto di quello che si ebbe nel 1987, quando votò una percentuale superiore, il 65%, ma con una quota dei contrari non poco inferiore, l’80%, così che, tenuto anche conto dei voti non validi (8%), solo il 45% degli aventi diritto poteva dirsi contrario al nucleare.
Al di là dell’esito numerico dei due referendum, molto diverso è soprattutto il loro significato politico. Allora il rifiuto del nucleare, anche in ragione della natura abrogativa dei quesiti, non avrebbe comportato di per sé un’immediata uscita del nostro paese da questa tecnologia. Se questo accadde fu perché l’intero arco dei partiti, al governo e all’opposizione, dette un’interpretazione politica del tutto estensiva del responso referendario, andando oltre le posizioni estreme degli stessi antinuclaristi, che reputavano quasi impossibile il blocco generalizzato delle centrali in esercizio e di quella in costruzione (Montalto di Castro). Nel referendum del 12-13 giugno non vi è nulla da interpretare perché i quesiti erano netti: SI/NO al nucleare. Una chiusura, quindi, tombale del nucleare nel nostro paese che pone in tutta evidenza l’estrema fragilità politica e sociale su cui poggiava la sua presunta ‘rinascita’ nel nostro Paese. Rinascita avviata nel maggio del 2008 e declamata, in un (solo apparente) coro di consensi sino all’indomani della tragedia giapponese di Fukushima dell’11 marzo scorso.
Ho sostenuto in tempi non sospetti che nel modo raffazzonato in cui si andava procedendo non si sarebbe andati da nessuna parte: per la mancanza di un minimo consenso politico bipartisan, per la scarsa consapevolezza delle molte difficoltà che si sarebbero dovute superare, perché molte delle premesse/promesse con cui si motivava il rientro nel nucleare (riduzione secca dei costi/prezzi, capacità delle imprese di ‘far da sole’, convenienza del nucleare e via andare) poggiavano sul nulla. Solo molta propaganda e molte mistificazioni. Una fragilità che si è palesata in modo imbarazzante di fronte al referendum e al crescere delle aspettative di un raggiungimento del quorum. Al di là del dilettantesco modo in cui il governo ha tentato di impedire il referendum, colpisce il fatto che quasi nessuno tra i molti sostenitori del rientro nel nucleare abbia ritenuto di sostenerne le ragioni. Così è stato per l’intero mondo della politica che ha preferito tacere e lasciare, bontà sua, ‘libertà di voto’ agli elettori; per il mondo industriale (elettrico e manifatturiero) a partire dalla stessa Confindustria; per i molti opinionisti che pure ne apparivano entusiasti.
In assenza di ogni contradditorio pubblico e di ogni confronto di posizioni tra favorevoli e contrari, l’esito referendario poteva dirsi scontato, anche se i numeri sono andati al di là di quel che poteva ipotizzarsi. Ciò detto, che accade ora nel nostro panorama energetico? Ritengo sostanzialmente nulla per più ragioni. Primo: perché la prospettiva di un rientro nel nucleare del nostro Paese si sarebbe comunque verificato – in termini di produzione di elettricità – nell’ipotesi più ottimistica non prima di 15-20 anni e certo non nei pochi anni che si erano propagandati (2013 apertura del primo cantiere, 2008 inizio della produzione). Secondo: perché guardando alla realtà vera e non virtuale che si era dipinta, la capacità di generazione elettrica è nel nostro Paese, oggi e in prospettiva, largamente idonea a soddisfare un profilo di domanda che si proietta sostanzialmente stabile. Non vi è quindi nessuna necessità di affannarsi a ‘colmare un vuoto’ inesistente. Terzo: perché la scelta di sostenere le rinnovabili con incentivi stimabili nel corrente decennio in 120 miliardi euro porterà ad un loro sviluppo largamente eccedente i fabbisogni.
Non vi è quindi, diversamente da quel che si sostiene, un ‘disperato bisogno di un nuovo piano energetico’ ma semmai la necessità di razionalizzare l’esistente, più che espanderlo quantitativamente, rafforzando e modernizzando il sistema delle infrastrutture, sia elettriche che metanifere; adottando una politica sul versante della domanda che colga le notevoli potenzialità di miglioramento dell’efficienza energetica, con benefici in termini economici, industriali, ambientali; tentando di finalizzare gli incentivi alle rinnovabili alla nascita di robuste filiere produttive nazionali. E del nucleare che ne sarà? Se è pur vero che il responso referendario non lascia spazio alcuno alla possibilità di riaprire la via del suo utilizzo con la realizzazione di nuove centrali, ritengo allo stesso modo che sarebbe erroneo azzerare ogni nostra presenza in tale tecnologia specie sotto il versante del sapere: si tratti di ricerca scientifica, di istruzione accademica, di aggancio ai progressi che altrove si vanno realizzando. E soprattutto riguardo la sicurezza nucleare.
Se vi è un insegnamento che dovremmo trarre da Fukushima è che il nucleare ha una dimensione globale che non ci sottrae ai rischi delle altrui centrali. Non si è, in sostanza, paese denuclearizzato solo perché non si hanno centrali nel proprio territorio. Lo siamo, ahimè, tutti. La sicurezza delle altrui centrali è la nostra sicurezza. Dal che la conclusione che il nostro Paese, non meno di quelli nuclearizzati, deve poter pretendere a pieno titolo che in Europa, come altrove, siano garantite le maggiori condizioni di sicurezza per le popolazioni. Ma per essere credibili in tali richieste doppiamo poter disporre di istituzioni (Agenzia nazionale della sicurezza) e quindi delle capacità professionali e del sapere (e di chi lo genera) su cui la loro attività deve necessariamente fondarsi. Rinunciarvi è disattendere gli stessi esiti referendari.
* economista, ex ministro dell’Industria