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Nucleare, ecco il ritorno italiano. Ma la strada resta tutta in salita

I costi esorbitanti, i dubbi sulla convenienza economica, i nuovi vincoli per la sicurezza, i ritardi nello sviluppo dei reattori di nuova generazione, gli errori e le omissioni. Il ddl appena varato dal Governo promette vantaggi per tutti, ma deve fare i conti con molte, forse troppe, incognite.

Nucleare, ecco il ritorno italiano. Ma la strada resta tutta in salita

Lungimiranza o suicidio prima industriale e poi politico? Il Governo Meloni riaccende la sfida dell’energia nucleare ma lo fa a metà, ben consapevole dei rischi che corre. È stato abbondantemente svuotato di contenuti il disegno di legge varato “in via preliminare” dal Consiglio dei Ministri venerdì 28 febbraio. Qualche evidente errore di valutazione che compariva nelle bozze di lavoro è stato fortunatamente sotterrato. Altri ne rimangono. Le promesse ci sono tutte: nucleare come parte sostanziosa della politica di decarbonizzazione al 2050 e contemporaneamente dell’affrancamento del nostro paese dalla dipendenza energetica dall’estero; nucleare italiano come veicolo indispensabile per partecipare da protagonisti alla ricerca sulle nuove generazioni dell’atomo elettrico pensando al traguardo che purtroppo rimane lontano ) della fusione; nucleare come mezzo per soddisfare la crescente fame di energia; nucleare come mezzo per stemperare il caro-bollette.

Tutto ciò in uno scenario che vede l’auspicabile ripresa di un robusto sviluppo economico e contemporaneamente un trasferimento delle fonti e dei vettori energetici dagli idrocarburi all’elettrificazione: nelle automobili (deroghe e dubbi a parte sullo stop ai motori termici al 2035), nelle case (via le caldaie a gas, largo alle pompe di calore elettriche magari accoppiate al fotovoltaico), nelle attività economiche e industriali.

Le ragioni, i costi, i tempi, la reale praticabilità di un ritorno nucleare. Le bozze preliminari, anticipate dalle dichiarazioni diffuse con clamore dai membri del governo e dalla stessa Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nelle scorse settimane erano roboanti. Ecco a voi le tecnologie nucleari di nuova generazione grazie ai reattori modulari di piccola taglia (SMR, Small Modular Reactor), che entro un paio d’anni potranno essere messi in cantiere con le prime centrali pronte a produrre energia tra cinque o sei anni.

Cosa cambia nel ddl definitivo

Nello schema del ddl varato venerdì scorso la tempistica è stata, semplicemente e prudentemente, cancellata. Così come è stato cancellato il progetto di riattivare intanto, ricostruendole con nuove tecnologie, le nostre vecchie centrali nucleari (Trino, Caorso, Garigliano, Latina) chiuse dopo il referendum del 1987, riconvertendo al “nuovo” nucleare anche la centrale di Montalto di Castro, come da suo progetto iniziale poi naufragato con il referendum. Magari se ne parlerà, ma fare i nomi di punto in bianco senza aver tentato di preparare lo scenario con cura avrebbe significato accendere insurrezioni ingestibili. Saranno gestibili in un momento successivo? Chissà.

Rimane il traguardo del 2050 per gli impegni di decarbonizzazione anche con il ritorno al nucleare (che nelle pieghe del nostro PNIEC, il nostro Piano nazionale energia e clima, si traguarda tra l’ 11 e il 22% della nostra produzione elettrica al 2050). Rimangono le teorie sulla bontà della scelta, sulle virtù promesse dai reattori SMR, sui vantaggi economici dell’operazione. Rimane l’immancabile liturgia per cominciare a dare un po’ di sostanza al ddl, che per ora è del tutto vuoto degli elementi operativi. Serviranno molti decreti legislativi, che il Governo si impegna a varare (qui i tempi non sono stati tagliati ma anzi accelerati rispetto alle bozze del provvedimento) entro 12 mesi, con la doverosa liturgia di pareri incrociati tra ministeri, commissioni parlamentari e autorità di ricerca e regolamentazione. Un anno per fare tutto?

Le materie a cui dare concretezza con i decreti legislativi investono l’universo mondo non solo del nucleare ma delle strategie energetiche italiane. Ci sono gli impegni (con relativo decreto legislativo) per costruire una filiera che al nucleare affianchi anche la produzione di idrogeno (è giusto così, per garantire tutte le potenzialità economiche di centrali che per forza di cose devono essere in attività 24 ore su 24) così da stoccare una fonte energetica in grado di restituire elettricità aggiuntiva quando ne abbiamo bisogno.

Nascerà per decreto anche una nuova Authority di settore, che amministrerà le norme e garantirà al meglio la sicurezza. Ci sarà un decreto per facilitare la ricostruzione di un sistema di formazione superiore e universitaria sulle competenze tecniche necessarie che un tempo, prima degli anni 90, vedevano l’Italia come punta di eccellenza mondiale. Si esamineranno le misure finanziarie di sostegno per chi realizzerà gli impianti. Ma ci saranno anche decreti con cui si promette di dare soluzione a cose già abbondantemente normate che soluzione ora non hanno: l’istituzione alla riforma degli enti delle procedure di controllo ma soprattutto (e questa è davvero una grana di proporzioni colossali) procedure regole che siano davvero affidabili per una buona gestione e smaltimento delle scorie nucleari, oltre alle norme per il loro nuovo approvvigionamento.

Domanda: cosa potrà mai consentire di risolvere il problema dell’assoluta indisponibilità di qualunque nucleo di popolazione italiano a ospitare qualunque cosa che contenga il termine nucleare? Tant’è che come stranoto le nostre vecchie scorie sono ancora conservate in decine se non centinaia di siti. Quelli che li hanno prodotti, come le vecchie centrali nucleari italiane che qualcuno pensava di “riattivare” ma che intanto non riusciamo ancora a bonificare del vecchio materiale inutile e pericoloso, e quelli che le continuano a produrre, come la medicina nucleare o la ricerca.

Il tutto senza riuscire a risolvere neanche lontanamente, malgrado le decine di studi con relative mappe delle “aree idonee”, il problema di insediare un deposito unico nazionale. Incombenza che ha generato finora solo poderose sommosse popolari, nonostante i programmi abbozzati per costruire il deposito unico fossero accompagnati da robuste (in teoria) garanzie sulle compensazioni e relative valorizzazioni per il territorio e le sue popolazioni.

Ma veniamo al merito di qualche doverosa obiezione ai contenuti che sopravvivono nel ddl appena varato. Sul fatto che il nucleare in via di principio può e forse deve essere un buon compendio ad un mix energetico il più possibile razionale e diversificato le convergenze sono più che comprensibili. Ma proprio per questa ragione l’analisi dello scenario deve impegnare i migliori analisti in un quadro di correttezza formale e sostanziale. Insomma, di provate competenze. Purtroppo così non è.

Interpretare lo scenario non è facile. L’errore è in agguato

Le ragioni del nostro ritorno al nucleare? Ecco un errore macroscopico. A riprova dell’insicurezza dei nostri approvvigionamenti e delle insufficienze della nostra struttura di generazione elettrica si afferma, nella relazione illustrativa al ddl appena varato, che “l’Italia dipende in misura significativa dalle importazioni di energia elettrica, specialmente nelle ore notturne. L’invecchiamento del parco nucleare francese e l’aumento della domanda anche nei Paesi attualmente esportatori potrebbe però rendere meno affidabile questa fonte di approvvigionamento nel lungo termine, anche al netto del mutamento degli equilibri geo-politici”. Le cose non stanno così.

Come stranoto, l’Italia importa energia nucleare dalla Francia nelle ore notturne semplicemente perché i cugini transalpini ce la vendono con un forte sconto, perché sono costretti a tenere sempre accese le loro centrali (il nucleare non può funzionare a singhiozzo) e di notte non saprebbero come usare tutta quella energia: la loro strategia per produrre idrogeno con il nucleare eccedente è ferma al palo e un sistema di accumuli a batterie non è plausibile con quelle quantità in gioco. Mentre noi possiamo giocare sui nostri ottimi gruppi a turbogas accendendoli e spegnendoli con facilità. Tant’è che in non poche occasioni di giorno siamo noi a dare un po’ di energia aggiuntiva alla Francia.

Conviene a tutte due, insomma. La Francia di notte ci fa da polmone (a basso prezzo). Quando ha invece il fiato corto, di giorno, interveniamo noi vendendogli energia (ad alto prezzo, peraltro). Un sistema che dovrebbe semmai portare i mercati elettrici europei verso un unico sistema interconnesso, capace di mettere a fattor comune pregi e virtù delle diverse soluzioni. Cosa che al giorno d’oggi può avvenire, visto che abbiamo risolto i problemi di affidabilità delle linee transfrontaliere e dei sistemi di gestione istantanei del fabbisogno elettrico. Grazie all’opera di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale, la rete ha fatto un vero salto di qualità rispetto a quella notte del 28 settembre 2003 quando l’elettricità francese si è interrotta per un guasto lungo il transito dalla Svizzera che ha causato il più lungo e devastante blackout della nostra storia.

Il nucleare del nuovo debutto è davvero nuovo? Non proprio

Altro errore, o quantomeno un difetto prospettico. I reattori con i quali stiamo preparando il ri-debutto sono davvero di nuova generazione? Non è così. I manovratori del nostro campione nazionale, l’Enel, vantano ottima competenza e grande disponibilità verso il nucleare. Tant’è che hanno già varato una “Newco”, insieme ad Ansaldo Energia e Leonardo, che sappia accompagnare al meglio l’operazione, non appena si potrà partire. Insomma, sono convinti della bontà teorica della sfida. Che illustrano con puntuale sincerità.

La Newco – afferma Luca Mastrantonio, Head of Innovation Nuclear Enel – punterà “prima di tutto sugli SMR (Small Modular Reactor), i cosiddetti mini reattori ad acqua di terza generazione, ma in agenda avrà anche la ricerca e il monitoraggio degli AMR (Advanced Modular Reactor) che rappresentano la promessa della quarta generazione dell’atomo. Nel frattempo – puntualizza Nicola Rossi, Responsabile Innovazione Enel – “è necessario sviluppare un framework regolatorio e finanziario: questi primi reattori avranno bisogno di supporto per ridurre rischi economici e garantire loro stabilità per almeno dieci anni”.
Le virtù dei reattori SMR sono semmai altre. Sono “modulari” e più piccoli, dunque possono essere progettati e realizzati in serie. “Prefabbricati” e poi montati e avviati magari in combinazione tra loro con più rapidità e costi teoricamente calmierati, per costruire piccole centrali (anche al servizio, ad esempio, di un distretto industriale che potrebbe essere artefice diretto della realizzazione) ma anche grandi gruppi di potenza più elevata.

Il groviglio dei veri costi dell’atomo elettrico

Già: l’impegno finanziario, i costi, i promessi benefici sulle bollette. Questione non facile da decriptare. Pesa la struttura prospettica dei costi del nucleare lungo l’intero ciclo di vita dell’impianto, che ha bisogno di costi iniziali e di investimento in rapporto alla potenza di generazione assai più alti rispetto ad una centrale di idrocarburi o anche ad energie rinnovabili. Costi che, per obbligo dettato dalle nuove norme internazionali, devono incorporare come accantonamenti anche i costi di gestione delle scorie e del futuro smaltimento e demolizione a fine vita operativa (decommissioning). Costi stratosferici, che restituiscono i loro benefici negli anni grazie ad un costo molto basso del “carburante” radioattivo e una grande efficienza produttiva.

Ma tutto ciò quale prezzo finale dell’elettricità produce davvero? Mettere insieme le cifre del cosiddetto LCOE, il costo dell’elettricità livellato noto anche come LEC (Levelized Energy Cost), ovvero il valore netto del costo unitario in euro/kWh dell’energia elettrica nel corso della durata dell’impianto assunto come parametro per queste stime, significa scontrarsi con uno scenario davvero controverso.

Dotte analisi evidenziano una certa convenienza economica, anche se solo a medio-lungo termine. Altre analisi, che considerando tutti i fattori di costo spesso sottovalutati o nascosti (tra i quali, ad esempio, i vincoli sul livello di qualità dei cementi e degli involucri che hanno ritardato per anni l’entrata in servizio delle nuove centrali EPR francesi) arrivano ad una conclusione diversa: la convenienza economica dell’energia nucleare al giorno d’oggi, considerando i vincoli e i costi che riguardano la massima sicurezza e tutto quel che ruota intorno, rischia di essere un miraggio.

Ma da chi e come verranno sostenuti i massicci finanziamenti alle imprese che si avventurano nella sfida? Quale forma di sussidi o provvidenze lo Stato potrà mettere a disposizione in uno scenario che non vede più un monopolista a totale controllo pubblico, come accade per il nucleare del passato, ma un sistema concorrenziale e liberalizzato dell’energia, sottoposto a tutti i ben noti vincoli antitrust e alle normative europee che stringono drasticamente il campo dei sussidi?

Rimangono certamente i vantaggi indotti dalle virtù del nucleare sull’effetto serra, sulla CO2 e sugli inquinanti che, radiazioni a parte, stanno comunque mettendo in ginocchio il pianeta. E rimangono i vantaggi, potenzialmente immensi, che derivano da una provvidenziale differenziazione delle fonti energetiche con un drastico taglio del fabbisogno di petrolio e gas, i cui costi di approvvigionamento verrebbero prevedibilmente spinti al ribasso, con un benefico effetto sui costi medi dell’energia e relativi prezzi finali in bolletta. E alla fine la convenienza economica del nucleare potrebbe, forse, realizzarsi proprio grazie a queste variabili.

Il rischio del nucleare “scorciatoia” per la nuova energia

Ultima doverosa annotazione sul grande vizio di fondo, un po’ occulto, che pesa sulla sfida. Il testo del ddl e la sua relazione illustrativa insistono, giustamente, sulla priorità da dare alle vere fonti rinnovabili riservando il nucleare un ruolo di importante gregario. Ma la sfida nucleare si accompagnerà con un impegno pari, se non doverosamente superiore, sulle rinnovabili e sulla riorganizzazione del sistema energetico all’insegna dell’efficienza?

Se esaminiamo quello che sta succedendo sul fronte delle CER, le comunità energetiche rinnovabili, qualche dubbio viene. Le CER dovevano e devono rappresentare un formidabile mezzo per aggregare consorzi di cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche per moltiplicare la convenienza di installare impianti di energia rinnovabile per razionalizzare i consumi locali, moltiplicare la convenienza di realizzare singoli impianti verdi e di contribuire allo scambio di energia con la rete nazionale all’insegna dell’efficienza.

Ma proprio le CER rappresentano il classico esempio italiano di gap tra le promesse e gli ostacoli di una burocrazia. E di un groviglio di regole e di trappole normative che ne hanno prodotto finora, nel nostro paese, solo qualche decina. Forse un impegno del Governo su questi fronti potrebbe dare maggior coerenza a quella politica energetica complessiva promessa con grande enfasi nel testo dello stesso ddl per la rinascita del nucleare.

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