Doveva diventare il colosso europeo in grado di sfidare la concorrenza cinese e guidare la transizione elettrica. Invece, Northvolt ha dichiarato fallimento sotto il peso di quasi 8 miliardi di debiti, trascinando con sé le speranze di un’Europa più indipendente nel settore delle batterie. La startup svedese, che in 10 anni aveva raccolto circa 13 miliardi di euro tra capitali di rischio e finanziamenti, non è riuscita a reggere l’impatto della cancellazione di ordini cruciali e della difficoltà nel reperire nuovi investitori.
Cosa ha mandato in crisi Northvolt?
Fondata nel 2015 da due ex dirigenti di Tesla, Northvolt rappresentava una scommessa strategica per l’Europa, che puntava all’autonomia nel settore delle batterie per auto elettriche. A novembre 2024, l’azienda ha presentato un’istanza di Chapter 11 al tribunale americano per cercare di salvare la produzione in Europa. Nonostante l’entusiasmo iniziale e il supporto di investitori di peso come Goldman Sachs, BlackRock, Volkswagen, Bmw e Fondaco (società di gestione del risparmio italiana partecipata da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e Narval), il progetto ha iniziato a vacillare.
Nel giro di pochi mesi, il sogno si è infranto.
Il rallentamento dell’elettrificazione nel settore auto ha dato il colpo di grazia alla startup. Nel giugno 2024, Bmw ha annullato un ordine da 2 miliardi di euro per problemi di ritardi nelle consegne. Poco dopo, Northvolt ha subito un ulteriore colpo con la cancellazione di un finanziamento da 5 miliardi di dollari destinato all’espansione dello stabilimento.
Nel frattempo, l’azienda aveva puntato su un piano di crescita aggressivo, con nuove gigafactory in costruzione e progetti di espansione tra Svezia, Germania, Nord America e Polonia. Ma senza un flusso costante di ordini e nuovi investitori pronti a coprire le perdite, la situazione è diventata ingestibile. Dopo aver chiesto la protezione dai creditori negli Usa, Northvolt ha dovuto fare lo stesso in Svezia, dove ha sede.
L’impatto sui lavoratori e sull’industria
Ora il fallimento mette a rischio oltre 5.000 posti di lavoro, di cui 1.800 solo in Svezia. Già a settembre 1.600 dipendenti erano stati licenziati, mentre il ceo e cofondatore Peter Carlsson si era dimesso. “Molte cose sono andate storte e ora il prezzo lo pagano i nostri membri”, ha commentato amaramente la leader sindacale Marie Nilsson.
Ma l’onda d’urto non si ferma qui: Porsche è già alla ricerca di nuovi fornitori, mentre Volkswagen teme ripercussioni sulla sua catena di approvvigionamento. “L’Europa ha bisogno di sviluppatori di batterie competenti”, ha dichiarato il ceo di Volkswagen e Porsche, Oliver Blume.
C’è ancora speranza per Northvolt?
Nonostante la bancarotta, alcuni attori industriali stanno valutando un possibile salvataggio, almeno di una parte. Scania, uno dei principali clienti e azionista di Traton, ha confermato l’intenzione di acquistare Northvolt Industrial, una divisione di Northvolt Systems, nonostante il fallimento della casa madre e di quattro sue unità, tra cui proprio Northvolt Systems. “La transazione, come originariamente documentata, non può essere completata con Systems in bancarotta”, si legge in un memo interno visionato da Reuters. Tuttavia, Scania ha ribadito il proprio interesse e sta valutando le prossime mosse, garantendo che la produzione dei suoi camion elettrici non subirà rallentamenti.
Anche il governo tedesco sta cercando investitori per salvare la fabbrica Northvolt di Heide, come dichiarato dal ministro dell’Economia Robert Habeck. Nel frattempo, le operazioni in Germania, Nord America e Polonia restano escluse dal fallimento, lasciando aperto uno spiraglio per una possibile ristrutturazione.
Il futuro di Northvolt: vendita o spezzatino?
Ora un liquidatore giudiziale si occuperà della cessione degli asset di Northvolt per cercare di soddisfare almeno in parte i creditori, che vantano oltre cinque miliardi di euro di prestiti. Il destino dell’azienda potrebbe essere una vendita unitaria o uno smembramento delle sue attività. Ironia della sorte, invece di ridurre la dipendenza dai fornitori asiatici, l’Europa rischia di diventare ancora più vincolata alla Cina e alla Corea del Sud.
E tutto questo, nonostante le ambiziose strategie del Piano Ue per l’automotive presentato dalla Commissione europea la scorsa settimana.
Un finale amaro per un’avventura che doveva rivoluzionare il mercato.