Che lo sviluppo economico del Veneto non sia mai stato frutto di una pianificazione, bensì il risultato caotico della capacità e dell’audacia di migliaia di piccoli imprenditori, è cosa nota. Il Nordest manifatturiero è una macroregione che si organizzata da sé, in proprio, con uno spirito individualistico d’impresa fortissimo mai scalfito e convinto veramente dalla necessità di fare squadra o rete come si dice in gergo. Finora è andata bene, il Triveneto è pur sempre la “Cina italiana”, ma il post pandemia potrebbe cambiare alcuni scenari, e per restare leader tra le grandi aree industriali continentali dovrà probabilmente cambiare pelle.
E’ uno dei punti di riflessione emersi dal Rapporto 2020 della Fondazione Nordest, il think tank che ogni anno scandaglia le dinamiche micro e macro dell’economia nordestina. Già oggi qualche segnale d’allarme c’è, perché se è vero che le imprese che esportano hanno tenuto, e anzi molte hanno migliorato i loro bilanci, il Covid ha comunque dato una mazzata tremenda anche al Pil prodotto dalla “locomotiva d’Italia”. Il calo subito nel 2020 è vicino al 10 per cento (-9,3% per l’esattezza), con previsioni di recupero solo parziali nel 2021 (5,6%). Stando alle cifre che hanno in mano gli imprenditori nordestini, il 70% di chi fa impresa stima che il recupero dei valori pre-crisi sarà possibile solo nel 2022.
Il futuro del Veneto industriale non è legato solo alla ripartenza della domanda mondiale, ma come spiegano i ricercatore della FNE sarà determinante capire come le imprese del Nordest sapranno mantenersi e rigenerarsi nelle nuove catene globali del valore. «La capacità di competere nella nuova fase di globalizzazione impone agli imprenditori di valutare criticamente le proprie catene globali di fornitura, mettendo in campo le azioni possibili per ridurre il rischio di blocchi produttivi in caso di crisi delle supply chain così come avvenuto con la pandemia», si legge nel report 2020.
Il ragionamento di fondo che emerge, oltre alle analisi puntuali sulle percentuali di un anno nefasto, è quello di “un’impresa Veneto” che per mantenere le sue tante leadership non potrà più affidarsi solo ai talenti dei singoli imprenditori ma dovrà mettere in cantiere un nuovo patto tra aziende, corpi intermedi, sistemi di formazione e istituzioni, per cavalcare la ripartenza. Lo sostiene anche Daniele Marini, sociologo dell’Università di Padova, forse il massimo conoscitore dei meccanismi che regolano, o meglio che “non” regolano”, l’economia nordestina. «Ci sarà una ripartenza “disordinata” con processi che si snoderanno a velocità diverse, una volta si sarebbe detto a geometrie variabili.
Siamo ancora dentro al tunnel della pandemia, ma le previsioni dicono che si imporranno scenari di cambiamento profondi per il Veneto. Il rischio è che questi territori “subiscano” la ripartenza al traino di altre aree. Mi spiego: l’”effervescenza individualistica” ha pagato con il boom e con le varie fasi di sviluppo dei decenni scorsi. Anche regioni avanzate come l’Emilia Romagna erano alle nostre spalle. Dopo un anno e mezzo di pandemia, con interi comparti distrutti, servono però progetti globali di sistema, o meglio di “ecosistema” del territorio. L’Emilia Romagna ha messo in piedi da anni un patto trasversale per lo sviluppo economico locale che non si fonda esclusivamente sulle imprese».
Intervistati a fine ottobre, quindi dentro alla seconda ondata che all’epoca si sperava fosse l’ultima, gli imprenditori veneti puntavano su cinque nuovi segmenti ad alto potenziale industriale: sanità, farmaceutico, logistica, digitale e alimentare. Per entrare, o rimanere ai vertici, delle filiere globali di questi mercati, i capi azienda del Nordest segnano come cruciali le competenze digitali (per il 30% degli intervistati), accanto ad alcune competenze trasversali, come saper gestire situazioni e problemi imprevisti (43,7%), farsi carico di attività nuove e sfidanti (43,7%), l’autonomia (40,9%).
«Per l’industria, per il terziario e il commercio, per il turismo, ci sarà l’obbligo di competere all’interno di filiere intersettoriali non più solo locali e sempre più complesse. Potrei sbagliarmi – conclude Marini – ma è arrivato anche in Veneto il momento di cambiare mentalità, da quella del “paron che fasso tutto mi” all’idea di condivisione, collaborazione, cooperazione con i tanti corpi intermedi e le istituzioni che producono “capitale sociale” nelle nostre comunità territoriali».