Un reshoring quasi obbligato coinvolgerà gradualmente le filiere manifatturiere del Nordest. Gli ultimi dati pubblicati sull’export nordestino a fine 2021 sono sfavillanti ma ormai poco significativi, perché superati dal nuovo scenario portato dalla guerra in Ucraina. Si ritorna quindi a guardare alle aree di scambio più vicine, per noi quelle europee, che ricordiamolo sono comunque e sempre le più rilevanti per l’economia italiana. La Camera di Commercio Italo-Germanica e Confindustria Veneto hanno stimato che lo scorso anno l’export Veneto in Germania ha superato i 9 miliardi di euro, arrivando a valere il 13,8% del totale, in aumento del 50% sul 2008. L’economista della Ca’ Foscari Chiara Mio si occupa di sostenibilità e di innovazione nei sistemi industriali. Presidente di Crédit Agricole FriulAdria, è stata la prima donna banchiere nel panorama finanziario del Nordest.
La guerra in poche settimane ha tolto di mezzo l’ottimismo della ripartenza post pandemia.
«Stiamo vivendo scenari inediti che hanno cambiato tutte le prospettive. Se fino a qualche mese fa il problema principale di tutte le aziende era quello di vendere, ora il problema è quello della consegna, nel senso che non si riesce a far fronte agli ordini. Si fatica a reperire materie prime a costi non esorbitanti e in tempi accettabili. Si pone inoltre il problema della continuità nel rifornimento energetico».
Le aziende che negli anni hanno performato meglio sono quasi tutte export oriented. Se il mondo si congela cosa succede?
«Per anni il nostro Paese ha registrato crescite economiche da prefisso telefonico, con un mercato domestico poco reattivo. Le filiere hanno trovato nuovi mercati di sbocco e mantenuto quelli storicamente più floridi. Assisteremo ad una ricomposizione della geografia economica mondiale. Partendo anche dalla ridefinizione delle aree su cui investire e insediare parti della propria produzione. Ritorneranno in Italia anche tante lavorazioni che ora sono collocate nell’Est europeo».
Un reshoring dunque che non riguarderà solo le produzioni in altri Continenti? Janet Yellen ha coniato il termine “friend-shoring”.
«Si tornerà a guardare con attenzione al livello di stabilità politica che garantiscono i singoli Paesi. Una Polonia che rischia di rimanere senza gas espone le aziende che lavorano sul posto a potenziali stop delle produzioni. Chi pensa di andare oggi in Polonia a produrre qualcosa? Il reshoring è già in atto, la crisi velocizzerà questo processo di rientro. Il sistema industriale italiano si giocherà questa partita sul fronte finalmente della produttività».
Torniamo al mondo che si richiude in blocchi: i numeri del 2021 saranno però difficilmente replicabili?
«Se si riferisce all’impatto delle esportazioni in Russia e nelle aree ex sovietiche stiamo parlando di zone che, al netto di qualche singola nicchia produttiva, non rientrano nemmeno tra le prime 10 per importanza per il nostro Paese. Non ci sono paragoni tra i nostri volumi di export con l’Europa e la Russia. Certo, le vischiosità che la guerra sta portando nei mercati internazionali non sono positive, ma bisogna essere chiari su quello che realmente conta la Russia nell’economia mondiale come mercato di sbocco».
I distretti del Nordest, per la loro struttura e specializzazione, rischiano di più rispetto ad altre economie europee?
«Alcune produzioni, penso alle filiere terziste della grande industria tedesca, le facciamo ancora solo noi con il livello di qualità che viene richiesto. È chiaro che in assenza di una politica energetica nazionale le nostre aziende rischiano di pagare di più e quindi di andare fuori mercato. L’Italia è un Paese che deve prendere decisioni importanti sull’energia».
Rispetto all’ultima grande crisi, quella che nel 2008 operò una selezione darwiniana anche nel Triveneto, oggi si aggiungono alta inflazione, scarsità di materie prime ed energia a prezzi folli. Come ci si salva questa volta?
«Ci sarà una risposta individuale per rendere le aziende ancora più resilienti. Penso alla scarsità di materie prime e alla poderosa spinta all’economia circolare che arriverà da questa situazione. Si affineranno i processi produttivi per cercare ulteriori gradini di marginalità. Si risponderà allo shock energetico con una nuova stagione di ottimizzazione delle risorse. Tutti i comparti produttivi saranno costretti a scegliere la via della sostenibilità. Ma serviranno anche interventi fuori dalla portata delle aziende».
In che senso?
«Sarebbe folle non rispondere a questa crisi con una politica industriale nazionale. La politica deve tornare a parlare di energia, trasporti, infrastrutture, grandi opere. Perché i problemi che si troveranno ad affrontare le imprese non sono passeggeri».
Cosa significa per il Made in Italy un mondo che si “restringe” in termini di globalizzazione?
«Finora la finanza, le merci, le produzioni, sono state libere di girare nel mondo con poche regole e con pochi diritti alle spalle. È arrivato il momento di andare a vedere anche nel retrobottega della globalizzazione: diritti umani, i diritti sociali, quelli del lavoro. Forse è una occasione, potrebbe non essere così negativo per i diritti di tante popolazioni del mondo. In generale penso che la grande questione sarà quella di capire cosa vorrà fare la Cina nel suo rapporto con l’Occidente».
Lei è pessimista o ottimista sul futuro?
«Prima che cadesse il Muro di Berlino nel 1989, quando appunto il mondo era diviso in blocchi d’influenza molto rigidi, le aziende italiane esportavano in tutto il globo. L’economia si aggiusta, si restringono mercati e se ne allargano altri. La variabile da ponderare è, lo ripeto, il ruolo che vorrà darsi la Cina nel prossimo futuro».
Se dovesse presentarsi un periodo di forti stress economici, troverebbe un sistema bancario più solido rispetto a dieci anni fa? L’ultima crisi ha spazzato via quasi tutte le banche popolari, non solo a Nordest.
«Non c’è paragone tra la solidità del sistema bancario italiano di oggi e quello di dieci anni fa. Già durante il Covid ha dimostrato di essere resistente e ben governato. La sostenibilità tra l’altro è oggi uno dei driver che guida l’erogazione del credito alle imprese. In caso di crisi il tema non sarà l’erogazione del credito ma sarà di tipo sociale. La fragilità della nostra economia riguarda quelle fasce sociali già impoverite, già ai margini del benessere, che rischiano di peggiorare ancora di più la qualità delle loro vite. E mi permetta di aggiungere: la soluzione non potrà essere il diseducativo reddito di cittadinanza».