Enrico Letta ha dalla sua margini di manovra ben superiori a quelli a disposizione di Mario Monti. Sia perché la situazione della liquidità internazionale è assai meno tesa, sia, soprattutto, perché “è ormai tramontata l’idea che la pressione dello spread fosse un elemento benefico, capace di ricondurre le decisioni di politica economica e monetaria in un circuito virtuoso: una presunzione del genere sopravvive ormai solo in piccoli circoli della Bundesbank”. Parola di Mario Noera, docente di diritto ed economia dei mercati finanziari in Bocconi, che invita il premier a muoversi subito e con decisione per dare una scossa all’economia. “E ci vogliono decine di miliardi, mica di meno” ammonisce.
Un invito che Letta accoglierebbe volentieri. Ma il piatto piange…
“Non sarà una passeggiata. Ma invito a rileggere le riflessioni deli economisti ai tempi della riconversione dell’economia russa: in certe situazioni la sequenza degli interventi ha un peso determinante. Non conta solo quel che fai, ma anche il timing e l’efficacia dell’effetto annuncio. Come dimostra, ultimo esempio, l’azione della banca centrale giapponese”.
A proposito di Giappone, dopo l’avvio della politica espansiva di Tokyo si è levato un coro quasi unanime di consenso. Con l’eccezione della Germania…
“Oggi la cornice internazonale concede spazi ben superiori a quelli trovato da Monti nel novembre del 2011. La nuova politica giapponese, in sintonia con le scelte americane, ha avuto l’effetto di far ripensare la politica monetaria a livello globale. Di fronte a questa nuova realtà l’Europa tende a resistere, anche a causa della difficoltà a ripensare la struttura dei trattati fondanti dell’Unione, sia monetaria che politica. Ma questo pone problemi molto rilevanti di tenuta di fronte all’onda innescata dall’azione del Giappone che, al pari degli Usa, tende ad agire sul denominatore, attraverso la crescita, piuttosto che sul numeratore, attraverso l’austerità”.
L’Europa, però, finora non ha cambiato rotta.
“Il rischio è di pagare il prezzo più alto in una competizione che avrà, al solito, vincitori e vinti. E l’Europa, sotto il peso della recessione e della rigidità delle sue regole, ha solo due possibilità per spezzare il circolo vizioso: riaprire un tavolo internazionale per affrontare le questioni aperte dalla politica espansiva che prima o poi si scaricherà sul cambio. Oppure ricominciare a discutere il ruolo della Bce. Purtroppo, però, i tempi non sono maturi. Il risultato è che l’Europa tende così ad avvitarsi diventando ancor più vulnerabile”.
E’ in questa situazione che s’inserisce la novità italiana…
“Possiamo dire, in termini di politica economica, che in Italia è emersa una soluzione blandamente keynesiana. Ci siamo arrivati in maniera non lineare, con passaggi a tratti drammatici. Ma il risultato, tutto sommato, è il migliore possibile. In linea teorica avrei gradito soluzioni keynesiane più radicali ma temo che avrebbero avuto conseguenze assai destabilizzanti per il quadro europeo. E’ stato conseguito però un altro risultato di rilievo, di segno opposto: questa soluzione di governo ha imbrigliato il popolusmo di Berlusconi”.
Letta può contare, grazie a Napolitano, su un retroterra solido sul terreno di casa. Ma in trasferta resta l’intransigenza tedesca. O no?
“Non credo che ci possa essere una svolta in vista, almeno sul piano degli annunci ufficiali. Credo però che si possa determinare, da parte della Merkel, una situazione di non ingerenza negativa. Di più non si può chiedere, anche perché il Cancelliere deve fare i conti con gli euroscettici. Esiste comunque uno spazio di manovra, seppur ridotto. Tra poche settimane l’Italia uscirà, in maniera quasi automatica, dalla procedura per deficit eccessivo. Ciò consentirà di scomputare dal disavanzo gli investimenti. Poi, ad ottobre, una volta superate le elezioni tedesche, si affronteranno gli ostacoli più pesanti, a partire dall’unione bancaria su cui la Germania non ci sente”.
Nel frattempo abbiamo qualche pallottola, mica tante per la verità, da sparare. Come usarle?
“La cosa più urgente è il pagamento, il più rapido possibile, dei pagamenti arretrati alle imprese. Capisco le resistenze della burocrazia: non ho dubbi che una parte di quei soldi possa finire in mani impropie, sulla base di contratti gonfiati o peggio. Ma il guadagno per l’economia è ben superiore agli eventuali danni collaterali. Mi rifaccio al dibattito che si aprì tra gli economisti dopo la fine dell’Unione Sovietica. In quell’occasione emerse che, per l’efficacia delle riforme, la sequenza conta quanto se non di più dei contenuti. Perciò occorre un gesto forte”.
E poi?
“Bene il rinvio dell’Imu. Credo sia urgente aggredire il problema delle aliquote fiscali. Prima per le aziende poi, in maniera più morbida, per l’Irpef, almeno per le fasce più deboli. L’iniziativa sul reddito d’impresa avrebe un grosso impatto psicologico: è inutile mettere alla sbarra Olanda e Lussemburgo per aver attratto aziende e capitali con una politica di fisco leggero che del resto è praticato anche nei Paesi baltici e scandinavi. L’importante è muoversi sul terreno di saper attarre investimenti”.
Come conciliare una strategia dinquesto genere con il fiscal compact?
“Con questo fiscal compact non è possibile. Ma sono convinto che molte cose, nei fatti se non a parole, possono cambiare. La stessa Germania deve compensare gli effetti della frenata delle economie asiatiche che hanno assorbito buona parte del suo export. Berlino è percorsa da preoccupazioni di segno diverso. Le stesse dichiarazioni della Merkel sul taglio dei tassi si prestano ad una doppia lettura: un occhio di riguardo alla politica tradizionale della moneta forte, ma un altro rivolto al rischio di frenata dell’industria manifatturiera .”