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Noera (Aiaf): “Brady bond dell’Europa per uscire dalla crisi”

Per disinnescare la crisi finanziaria che minaccia di investire l’eurozona, causa i debiti sovrani accumulati dai partner più deboli dell’area euro, si dovrà ricorrere alla riedizione dei “Brady bond”, che negli anni Ottanta permisero di assorbire il debito dei Paesi sudamericani. Prima, però, si dovrà consentire allo European Facility Stability Facility, concepito come veicolo salva-euro, di intervenire anche sul mercato secondario delle emissioni di Stato, a sostegno dei parners più deboli. E’ la diagnosi-proposta di Mario Noera, presidente dell’Aiaf (Associazione italiana degli analisti finanziari), che non si nasconde la principale difficoltà: “La Germania, assieme ai Paesi più legati alla sua politica monetaria, ha finora ha respinto questa soluzione che ha il sapore del salvataggio. Un’accusa legittima, ma non vedo alternative”.

A questa conclusione Noera è arrivato dopo lunghe riflessioni, ben precedenti al precipitare della crisi di questi giorni: della crisi greca, aggravata dal rifiuto della Norvegia di prestare altri quattrini ad Atene; il warning di S&P sull’Italia, alle prese on un quadro politico sempre meno comprensibile (e compreso) oltre confine; l’esito delle consultazioni elettorali in Spagna e nei land tedeschi che hanno introdotto altre turbative al mosaico di Eurolandia. “Mi piace distinguere – spiega Noera, docente di Economia degli intermediari e dei mercati finanziari alla Bocconi – tra elementi acceleratori e cause di fondo. Gli eventi di questi giorni, compresi i warning delle agenzie di rating o le difficoltà politiche dei Governi sono senz’altro degli acceleratori. Ma sotto agiscono le cause di fondo”. Proviamo ad individuare queste cause. “Partiamo dagli Stati Uniti. In questo caso Standard & Poor’s è stata estremamente chiara: il warning dell’agenzia nasce dalla convinzione che il governo americano non sia in grado di assumere iniziative in grado di portare al rientro degli squilibri della finanza pubblica. In sostanza, gli Usa sono di fronte ad un bivio: o una politica fiscale efficace oppure a riequilibrare i conti ci penserà l’inflazione. Una soluzione che gli Usa, unici al mondo, possono permettersi”.

Passiamo all’Europa. Da dove trae origine la crisi? “In Europa,. Con la nascita dell’euro, si è preclusa agli Stati con un forte deficit la via maestra della politica monetaria per riequilibrare i conti: cioè, la svalutazione della moneta. In questo modo Paesi come la Grecia, il Portogallo o l’Irlanda, che vantano bassi tassi di risparmio interni, hanno accumulato un debito estero crescente. Senza, ripeto, poter contare sulla valvola di sfogo della svalutazione”. Il risultato? “Non resta che una via: la deflazione attraverso l’aumento dell’imposizione fiscale. Ma è una non soluzione: per generare una crescita delle entrate fiscali sufficiente a coprire gli interessi, si finisce con il deprimere le prospettive di crescita del Pil, ovvero ad azzerare le possibilità di generare dall’interno le risorse sufficienti per ripagare i debiti”. Insomma, un cane che si morde la coda. Sembra che non ci sia soluzione, “la soluzione passa per una scelta politica. Si tratta, in linea di massima, di consentire ai debitori di ridurre il debito prestando i loro quattrini a un costo vicino allo zero. Con questo artificio sarebbe possibile invertire la tendenza, ricreando le premesse per una crescita sostenibile. Ma la Germania è assolutamente contraria a soluzioni di questo tipo. Al contrario, Berlino esige che i prestiti avvengano a tassi elevati, giustificati dal rischio”. E’ un braccio di ferro che dura da tempo: prima la Germania fa la faccia severa, poi si innesca un processo politico che porta a soluzioni di compromesso. Soluzioni non definitive, visto che da 18 mesi si riproducono, a scadenze fisse, condizioni di emergenza.

“E’ la grande differenza tra l’Europa e l’America. Gli Stati Uniti possiedono l’arma della svalutazione e la usano con grande determinazione. E’ vero che la politica del quantitative easing 2 è agli sgoccioli, ma la liquidità immessa nel sistema non verrà ritirata. L’Europa non ha questa valvola di sfogo. Intanto, causa una politica monetaria che nega un intervento politico definitivo a vantaggio delle aree strutturalmente in deficit, crea le premesse per un euro più forte del dollaro. Cosa che può servire alla Germania, che ha il problema di riassorbire parte del suo surplus, ma è la condizione peggiore per i più deboli”. E qui val la pena di parlare dell’Italia. Almeno dopo il warning “l’Italia ha tre punti di forza: il basso livello di indebitamento delle famiglie; un debito verso l’estero trascurabile o comunque sotto controllo; un’elevata ricchezza privata, pari a quattro volte il debito pubblico. Insomma, se l’Italia fosse un’azienda, diremmo che è una spa ben patrimonializzata, a prova di default. Per quetso motivo l’Italia è sempre stata in seconda fila, tra i possibili bersagli della crisi”. Eppure, pare che adesso ci tocchi un posto in prima fila: come mai questa retrocessione? “E’ evidente che le considerazioni precedenti valgono in caso di crisi di un singolo Paese. Ma, se la crisi diventa sistemica, l’orizzonte cambia. In caso di crisi dell’euro in quanto tale, tutti i paesi dell’area verrebbero penalizzati. E all’Italia non può che toccare un posto in prima fila se l’euro entra nel mirino”. Prospettiva tutt’altro che teorica. “Per la prima volta un economista del Cerp ha parlato sulle colonne del New York Times di un possibile ritorno della Grecia alla dracma. E Paul Krugman, pur non condividendo i risultati, ha trattato la tesi con molta serietà. La realtà è che un anno fa sembrava che fossimo stati in grado di vaccinarci dal virus della crisi greca. Anche perché, si diceva, il salvataggio di Atene serve soprattutto a salvare i grandi creditori, cioè le banche tedesche. Ma ci siamo limitati a soluzioni parziali con il risultato prevedibile che la Grecia è finita in recessione, così come il Portogallo, senza avere perciò le possibilità per ripagare i nuovi prestiti”. Insomma, il gatto continua a mordersi la coda.

E’ il caso di procedere ad una ristrutturazione del debito. O no? “Il fatto è che la Bce si oppone con forza alla prospettiva della semplice ristrutturazione del debito greco. Per un motivo semplice. E’ stata la Bce, non i Governi, a prestare 80 miliardi alla Grecia. E la banca di Francoforte non ha alcuna intenzione di essere l’unica ad accollarsi il debito. Anzi, Jean-Claude Trichet, al proposito, è stato esplicito: se voi Governi farete un passo del genere, io non finanzierò più i collaterali delle banche greche. E’ una minaccia grave, che equivale in pratica a minacciare di far uscire la Grecia dall’euro”. E’ una posizione dura. “Ma comprensibile. La Bce rischia di dover essere ricapitalizzata dai Governi a tutto danno dell’indipendenza della banca. In ogni caso, la situazione è molto delicata anche perché è in atto un cambio della guardia in molte istituzioni: la faccenda di Strauss-Kahn ha indebolito la posizione del Fmi, Trichet sta per cedere il testimone a Mario Draghi, in Spagna e in Italia la leadership politica è assai debole. Tutto questo contribuisce a rendere più difficile la ricerca di una soluzione. Eppure stiamo scherzando con il fuoco perché tutto lascia intendere che sarà l’Europa l’epicentro della prossima crisi”. Ma non ci sono alternative? “La mia opinione, puramente personale, è che una soluzione, tecnicamente possibile e paticabile anche nel breve termine, esiste: occorre consentire all’Efsf, istituto finanziato dagli Stati della Comunità, di poter intervenire anche sul mercato secondario, in appoggio a Paesi a rischio. In questo modo si consentirebbe alla Bce di sfilarsi da una posizione scomoda mentre si potrebbe avviare un’opera di risanamento finanziario soft”. In che modo? . “ Penso con interesse all’esperienza dei Brady Bond, voluti da Paul Volcker negli anni Ottanta per risolvere la crisi dei debiti dell’America Latina. Il meccanismo è semplice: gli Stati emettono titoli a tripla A da cedere alle banche in cambio di titoli greci, questi ultimi a sconto. In questo modo le partite a rischio, che potrebbero poi rivelarsi , a risanamento avviato, meno tossiche del previsto, verrebbero incorporate nei bilanci dei Paesi forti. In cambio, in circolazione ci sarebbe solo buona carta, in grado di finanziare la ripresa”. Finalmente una proposta semplice,anche se richiede una qualità: una forte e credibile leadership, materia rara nell’Europa di oggi.

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