Il tema del nuovo libro di Lino Terlizzi, editorialista del Corriere del Ticino, edito da Ornitorinco edizioni, è chiaro sin dal titolo “Niente Paura. Fatti e dati economici per una contronarrazione in opposizione a sovranismo e populismo”.
Secondo l’autore, sovranismo e populismo proliferano proprio ad una narrazione della paura che “in parte recepiscono da segmenti della società e in larga parte moltiplicano con le loro parole e la loro azione”. Lo scopo è chiaro: conquistare consenso e voti. Come combattere questa tendenza? Puntando su quella che Ferruccio De Bortoli, nella prefazione al libro, definisce “un’agenda ragionata” in grado di fornire ai cittadini opinioni, dati e descrizioni equilibrate.
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Di seguito ecco la prefazione al libro scritta dall’ex Direttore del Corriere della sera e de Il Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli:
Non esistono pasti gratis. E nemmeno infiniti happy hour. Il mondo annega in un mare di liquidità. Sconta il paradosso degli interessi negativi, in base ai quali il creditore finanzia il suo debitore, ma il denaro non si moltiplica a piacere senza costi invisibili nel tempo. Nemmeno sotto forma di bitcoin. Non cresce nel Campo dei Miracoli. E di Pinocchio, meno ingenui e simpatici del personaggio nato dalla fantasia di Collodi, se ne trovano un po’ ovunque. Di ogni pasta politica, di ogni provenienza. Persino nel severo mondo aglosassone si è persa l’importanza sociale della verità, la disciplina dell’ancoraggio alla realtà dei numeri. Figurarsi in quello latino.
Il sovranismo e il nazionalismo nelle loro varie declinazioni – ci spiega in questo saggio Lino Terlizzi – si nutrono in economia di alcune consolidate leggende. Una su tutte (variabile non solo italiana): l’idea che il ritorno alla piena libertà di stampare moneta sia sinonimo di indipendenza e restituisca, ad economie piegate dalle logiche ferree e arcigne della finanza internazionale, la forza di crescere e svilupparsi. Argentina e Venezuela sono perfettamente sovrane, faticherei a definirle indipendenti visto il nodo scorsoio dei loro debiti, aggravati dalla spirale tra inflazione e svalutazione.
L’agenda ragionata di Terlizzi si incarica di demolire molte facili narrazioni che alimentano i peggiori pregiudizi in economia e in politica. La nostalgia o meglio rimpianto del passato è l’ingrediente identitario che muove il consenso per il neoprotezionismo, per la voglia di “fare da sé”, nella fascinazione per muri e recinti. La crisi delle democrazie rappresentative è alimentata dalla paura del futuro. Si è tentato di lenirla con la coniugazione politica del verbo tornare. Tornare grandi, tornare liberi da legami internazionali, tornare ad accarezzare suggestioni imperiali. Un palliativo all’ansia di perdere il controllo dei destini nazionali, ma molto più banalmente delle proprie vite.
Lo sguardo a un ipotetico tempo che fu, descritto come un Eden troppo presto dimenticato, nel furore scomposto degli anni della globalizzazione, si scontra con i dati di fondo delle economie di mercato. Stiamo vivendo in questo momento nel mondo il più lungo ciclo di sviluppo della storia; la povertà è fortemente diminuita. Le Borse hanno toccato recenti massimi storici. Non abbiamo mai vissuto così a lungo e in salute. Certo con molte differenze, disparità, ingiustizie. Più accentuate rispetto al secolo scorso. Con la sofferenza di una classe media che si è trovata impoverita e smarrita nel progettare il proprio futuro. Ma che certamente non risolverà i propri problemi coltivando il sogno pericoloso di un ritorno al passato, alle frontiere chiuse, al protezionismo o, peggio, alla autarchia.
Accade qualcosa di strano. Nel ventre sociale delle principali economie del mondo, fortemente intrecciate da infinite catene del valore, si agitano i germi di una impossibile restaurazione. L’illusione di continuare a godere dei benefici della globalizzazione, delle esportazioni, senza pagarne il costo – che può e deve essere corretto ma non eliminato – ovvero gli effetti delle migrazioni, delle nuove tecnologie, della concorrenza dei Paesi emergenti. La pretesa che lo Stato, la cui capacità di reperire risorse è appesantita dai sistemi di welfare e dalla ridotta efficacia fiscale, sia in grado di fornire una estesa protezione collettiva. Anche in cambio (ed è questo quello che sta avvenendo anche in alcuni Paesi dell’Unione europea) di una rinuncia a diritti di libertà, alla qualità della cittadinanza.
Lo Stato non solo regolatore del mercato, promotore della conoscenza, fornitore della sicurezza, ma una sorta di nuovo Leviatano. Immanente. Capace di intervenire nei fallimenti di mercato – alcune volte è assolutamente necessario – ma chiamato anche a coprire con il denaro dei contribuenti le perdite di società decotte. Non si prepara il futuro difendendo il passato che non genera più né profitti per gli azionisti, né vantaggio per la società. Lo si promuove con una migliore formazione del capitale umano, nella competizione aperta delle idee, dei progetti, delle conoscenze e investendo nelle tecnologie, nelle miglior start up. Non difendendo carrozzoni pieni di debiti (ma anche di voti).
Il conto alla fine chi lo pagherà? Nessuno, è il sottinteso di alcune teorie che vorrebbero realizzare – per esempio in Italia – qualcosa di assolutamente inedito, la riduzione del debito pubblico con il taglio delle tasse in deficit nell’illusione che aumentino le entrate grazie a una impetuosa crescita. Mai successo. È un continuo gettare la “palla più in là” confidando nella fortuna di far pagare ad altri i costi della propria inettitudine e nella consapevolezza che i cicli della politica sono necessariamente corti. E corta è pure la memoria dell’opinione pubblica. Dunque, gli annunci sono più importanti dei rendiconti. I bonus più produttivi di consenso delle riforme di sistema per loro natura di lunga e incerta durata.
La peggiore narrativa sovranista e nazionalista ha sviluppato poi una idiosincrasia genetica per la finanza. Constatandone gli eccessi (in un mondo normale, gli Stati e le autorità indipendenti hanno il compito di regolarli e prevenirli) non si può non notare che si rischia, in questo modo, di perdere la nozione basilare del credito. Come se le banche non fossero imprese. Smarrendo così il fondamentale legame tra risparmio e investimenti. La speculazione è sempre esistita ma la si contrasta con la trasparenza e l’efficienza dei mercati, non con pregiudizi arcaici e furori giustizialisti che spediscono istituti e intermediari nell’inferno dell’immoralità. La semplificazione della realtà è foriera di leggende e sospetti. Sdogana fantasmi autoritari del Novecento, dà fiato, specie sulla Rete, ai peggiori pregiudizi. Ogni strumento della finanza può essere impiegato bene o male. I derivati, per esempio, sono utili quando parcellizzano il rischio, dannosi quando lo occultano.
Il libro di Terlizzi, come dicevo all’inizio, è un prezioso dizionario moderno degli equivoci. In economia e in politica. Spiega le virtù della democrazia diretta svizzera al di là degli stereotipi o delle facili imitazioni. Il sistema rossocrociato si regge su informazione e responsabilità nelle scelte collettive. E non a caso il governo confederale esprime, nella condivisione delle scelte, anche tra partiti molto diversi tra loro, non solo il suo punto di equilibrio ma soprattutto la consapevolezza che i destini nazionali sono in mano a tutti. Altrove si chiama consociativismo. Ha persino una connotazione negativa. E in società multietniche si può e si deve convivere. Un conto è l’integrazione, un altro la convivenza nel rispetto reciproco di libertà e tradizioni. Forse quest’ultima è più un’utopia che una buona pratica in latitudini (e altitudini) diverse da quelle svizzere.
Fonte: Niente Paura