Sino a poco tempo fa, la consapevolezza che l’industria culturale nel ciberspazio avrebbe fatto la fine della cultura classica nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, lungo linee non dissimili da quelle analizzate dai filosofi di Francoforte, era una certezza condivisa solo da pochi osservatori che, come Thomas Friedman — il columnist del New York Times — analizzavano con spirito critico quello che stava avvenendo nel ciberspazio, senza però sprofondare nella tecno-apocalisse di molti intellettuali pubblici di derivazione francortiana.
Poi è successo qualcosa di importante in una improbabile congiunzione tra tecnologia e comportamenti del pubblico, fino ad allora furiosamente incline al tutto gratis, tutto subito. Il modello dello streaming, grazie a società visionarie come Netflix e Spotify, ha iniziato a imporsi nel consumo di contenuti e il pubblico ha iniziato a vedervi un gradevole compromesso tra le proprie aspettative e quelle dei produttori di cultura. I sanculotti della gratuità hanno trasferito la loro furia sui social media e una grande fetta di pubblico si è trasformata da utente a cliente dell’industria culturale nel territorio del ciberspazio. Evviva!
Il modello fremium, uno prima breccia nel muro
Che si debba pagare qualcosa per i contenuti di qualità è oggi un tema di cui non si discute più. Succede e basta. Netflix ha 135 milioni di clienti e Spotify oltre 70 milioni. Questi clienti ogni mese pagano 10 dollari, meno del prezzo di un biglietto del cinema, per accedere a una sterminata quantità di contenuti, senza dovere barattare i dati sulle proprie abitudini con il servizio che ricevono. Lo streaming, come tecnologia, è stata veramente una killer app, come lo sarà, a breve, la tecnologia della blockchain. Un esempio del quale i sostenitori dell’autoregolamentazione del mercato dovrebbero fregiare sulle proprie bandiere.
Il modello commerciale che si è imposto è l’abbonamento che sta avendo un vero e proprio boom.
Adesso quasi tutti i produttori di contenuti domandano un abbonamento diretto o attraverso aggregatori che coprono tutte le aree dell’industria culturale, dall’informazione alla musica, dai libri alle arti visuali. Molti si affidano al modello freemium, per primo sperimentato nel mercato delle applicazioni, che combina uno strato gratuito con uno a pagamento, con il primo maieutico al secondo.
Ci sono pure dei problemi in questo schema, ma nulla tolgono all’atto rivoluzionario dello streaming e del modello di monetizzazione associato. I problemi principali delle imprese che hanno deciso di abbracciare questo modello di business, in modo esclusivo o come integrazione alla pubblicità, sono essenzialmente tre. Il primo riguarda la capacità del consumatore, seppure volenteroso, di sottoscrivere e gestire un ingente numero di abbonamenti: alla musica, ai quotidiani, ai magazine, ai servizi di delivery, ai video, ai libri, al servizio di taxi, al provider di Internet. Tutti costi e atti amministrativi che vanno a sommarsi alle bollette del gas, della luce, dell’acqua, all’assicurazione dei veicole e chi sa quant’altre faccende. Il secondo riguarda e l’imperativo di tenere nel tempo il consumatore issandolo nella propria offerta. È l’unica opzione disponibile e il fattore decisivo perché questo modello porti dei benefici duraturi non solo per i conti, ma anche per la evoluzione stessa del business.
“The Economist”, che raramente si lascia sfuggire i trend della nuova economia, è intervenuto su questo tema con un recente articolo nella rubrica “Schumpeter”, È un articolo che merita di essere proposto nella sua interezza ai nostri lettori, anche se spesso il magazine di Londra non c’azzecca (vedi Brexit, Referendum costituzionale italiano, Trump ecc.)
La new wave del business digitale
Una delle idee maggiormente in voga nel business è che le imprese possono sbarcare il lunario grazie ad abbonati fidelizzati, capaci di restare per un certo periodo di tempo, piuttosto che a clienti vaganti, abituati a passare da un fornitore all’altro come da un paio di scarpe a un altro. Il modello abbonamento è visto da molti investitori ed executive come il Santo Graal, poiché dà la possibilità di avere un flusso costante di entrate. Ma questo approccio però sottostima tre questioni. 1. Conquistare abbonati può essere oltremodo costoso. 2. Parimente costoso può essere mantenerli. 3. Gli abbonati possono avere sottoscritto più di un abbonamento alla volta e quindi essere in una pericolosa relazione commerciale multipla e non esclusiva.
Il modello più conosciuto di abbonamento è probabilmente Amazon Prime. Negli Stati Uniti Prime ha 80 milioni di abbonati che per 99 dollari al mese prendono un bel pacchetto di servizi: musica, film, spedizioni veloci di pacchi e perfino sconti su prodotti come gli alimenti per bambini. Ci sono molti altri esempi. Netflix offre una marea di TV per un piccolo canone mensile. Le società di capital venture stanno inondando di denaro i servizi di consegna a domicilio su abbonamento. Si tratta di imprese che portano sulla soglia di casa cibo, medicinali, suppellettili e anche le mutande.
Zuora, una società di sviluppo software, parla dell’avvento dell’”Economia dell’abbonamento”.
L’economia dell’abbonamento per non riavere un caso Cambridge Analytica
Alcune delle imprese di maggior successo, che si quoteranno nell’arco del 2018, si fondano sull’economia dell’abbonamento.
Dropbox, un servizio file sharing basato sul cloud, si è quotato al Nasdaq lo scorso marzo ed è stato valutato 13 miliardi di dollari. Dichiara di avere 500 milioni di utenti registrati e si prefigge di convertirli in clienti paganti (già sono 11 milioni) per offrirgli un servizio superiore.
Spotify, il servizio di streaming di musica, si è quotato in aprile con una valutazione di 26 miliardi di dollari maturata soprattutto grazie ai suoi 71 milioni di clienti paganti definiti “premium subscribers”.
[smiling_video id=”20141″]
[/smiling_video]
Di media ciascun utente pagante genera ricavi 13 volte superiore a un utente non pagante e incrementa di 27 volte in più il margine lordo.
L’appeal del business degli abbonamenti è ovvio. Le aziende possono programmare il loro futuro con più agio e possono costruire delle relazioni commerciali durature con i propri clienti che perdono interesse a fare acquisti casuali di servizi o prodotti.
Alcune venerabili imprese hanno scoperto molto tempo fa come convertire un acquisto casuale in acquisti ricorrenti. La Gillette offre ai consumatori rasoi super scontati per poi fargli acquistare mensilmente le lame di ricambio. Rolls-Royce, General Electric e Pratt & Whitney raramente vendono motori per jet civili in una transazione unica, ma chiudono degli accordi “oreflotta”, cioè contratti piuttosto complessi che vincolano le linee aeree per decenni.
L’abbonato come asset stabile
Il modello abbonamento sta diventando sempre più popolare grazie alla tecnologia che rende più facile il noleggio rispetto al possesso del servizio o del prodotto. Per esempio, invece di acquistare software, gli utenti possono utilizzarlo attraverso un servizio cloud.
Per di più la raccolta e l’analisi dei dati trova un grandissimo impulso da una relazione stabile venditore-compratore che va a beneficio di entrambi. Per esempio Netflix ha compreso che gli abbonati adorano le maratone delle serie TV e così li ha accontentati. E dopo l’emersione dello scandalo dovuto al dubbio uso da parte di Cambridge Analytica dei dati di 87 milioni di utenti Facebook, ci sarà una corsa nel business digitale a passare da un modello basato sulla esclusivamente pubblicità a un modello misto, fondato anche sugli abbonamenti proprio per mettere al sicuro la privacy dei propri utenti.
Quest’ultimo approccio mette a proprio agio gli investitori e i creditori con i business intangibili, che non sono delle attività che producono merci e vendite continuative. Un abbonato è percepito con un patrimonio stabile sul quale si può investire. Le attività che invece si basano su una frenetica sequela di transazioni singole, come quelle di Uber per esempio, sono più volatili e vulnerabili perché le barriere d’ingresso sono molto più basse.
I limiti dell’economia dell’abbonamento
Il boom degli abbonamenti senza dubbio continuerà. A tal punto che i regolatori antitrust potrebbero diventare piuttosto nervosi di fronte alla difficoltà dei consumatori di passare da un fornitore all’altro sia per le restrizioni contrattuali sia per i costi proibitivi che tale migrazione potrebbe comportare come, per esempio, la rinuncia ai propri dati storici.
Allora prima di celebrare l’egemonia di questo modello, bisogna prendere in considerazione i suoi limiti. Eccoli.
Primo. Le imprese devono investire in anticipo per attrarre nuovi abbonati sia con prezzi tenuti artificialmente bassi sia con spese pesanti in marketing e pubblicità. Prendiamo in esame la mezza dozzina di imprese che praticano questo modello: Amazon Prime, Blue Apron, Dropbox, Hulu, Netflix e Spotify, Confrontiamo il magro flusso di cassa dello scorso anno con l’investimento necessario a ottenere un 10% di ritorno sul capitale. Il deficit totale ammonta a 14 miliardi di dollari, o a 4 miliardi se escludiamo Amazon Prime. Questo deficit è vicino al valore delle risorse necessarie per conquistare e mantenere i nuovi abbonati. Alla fine queste imprese devono aumentare i prezzi per raggiungere un profitto, o vendere una più larga gamma di servizi a scapito di altre attività anch’esse fondate sull’abbonamento. Tutte queste imprese utilizzano modelli statistici per cercare di garantire che il “valore durevole” di un consumatore ecceda il costo di acquisirlo, ma si tratta di una scommessa.
Secondo. Gli abbonati sono fastidiosamente infedeli. Alla fine di un periodo contrattuale spesso passano a un differente fornitore. Si stima che Netflix perda mensilmente l’1% dei propri abbonati, in linea con i trend delle imprese che pratican questo modello come gli operatori di telefonia mobile. Per Spotify la cifra sale a un preoccupante 5%, per alcuni servizi di consegna di pasti a domicilio si sale a un letale 10%. Gli abbandoni (il churn) crescono in relazione all’arrivo di nuovi competitor e all’aumento dei prezzi.
Ménage a trente-trois
L’ultimo difetto è la mancanza di esclusività. I consumatori amano la fornicazione. I club di fidelizzazione hanno negli Stati Uniti 4 miliardi di membri dato che le persone amano iscriversi a un sacco di differenti fornitori come succede con le compagnie aeree e gli hotel. Questa tendenza potrebbe avviluppare anche il settore degli abbonamenti online.
Le 118 milioni di famiglie americane producono 200 milioni di abbonamenti ai servizi di streaming e ad altri servizi del web. La valutazione elevata delle imprese di streaming implica che queste siano in grado di attrarre 350 milioni di abbonati entro il 2027. Dall’offerta digitale dei quotidiani a quella dei sistemi di navigazione, fino alle startup che vendono sistemi di sicurezza per la casa, gli Statu Uniti sono sulla soglia di un gigantesco boom degli abbonamenti. La prima avvisaglia di guai potrebbe essere che non ci sono abbastanza americani per soddisfarli tutti
E allora bisogna subito inventarsi qualcos’altro. Che ne pensate della blockchain?