Su FIRSTonline ne abbiamo scritto da tempo: il presente e il futuro del mondo broadcast in Italia e in Europa è pieno di nubi minacciose, a partire da quando abbiamo intravisto la crisi del DTT con l’applicazione delle direttive comunitarie sui 700 Mhz e l’avvento del 5G. Per un verso la consolidata tendenza alla visione di contenuti audiovisivi in streaming e, per altro verso strettamente correlato, la mutevole composizione qualitativa e quantitativa dei diversi pubblici connessi in rete piuttosto che collegati ad una antenna satellitare o digitale terrestre potrebbero determinare veri e propri terremoti societari, produttivi e organizzativi tra i diversi operatori.
L’ultimo campanello di allarme è stato suonato nei giorni scorsi con la pubblicazione di un report da parte degli analisti di Bank of America Merrill Lynch dove si legge, senza mezzi termini, che la velocità di spinta e sviluppo business dei nuovi operatori sul fronte broadband è inversamente proporzionale a quella sul fronte broadcast. Lo studio sostiene che entro i prossimi 5 anni la platea delle televisioni tradizionali si potrà ridurre di oltre un quinto e i soggetti maggiormente interessati a questo mutamento sono i cosiddetti “nativi digitali” cioè tutti coloro cresciuti nell’era del Web. Sono loro, infatti, i driver del cambiamento e sono sempre loro il target preferito dagli inserzionisti pubblicitari che, non a caso, da tempo, stanno dirottando budget significativi dalle emittenti tradizionali alle nuove piattaforme di distribuzione di prodotti sempre più ideati, progettati e realizzati per questo “nuovo” pubblico.
Il tema della “generazione Alpha” come è stata definita dall’analista sociale Mark McCrindle, riferita a coloro nati dopo il 2010, definisce esattamente lo spartiacque dei paradigmi di definizione di nuovi contenuti, piattaforme di distribuzione e assetti societari e istituzionali.
Una data convenzionale di scadenza del break down è stata fissata per il 2025. Per quel tempo, come ha dichiarato Carolyn McCall, amministratore delegato di ITV, il principale operatore privato britannico, si potrebbe verificare il punto di non ritorno rispetto alla possibilità di rimontare l’inarrestabile ascesa dei grandi colossi dello streaming on line: Netflix, Amazon, Google, Disney. Non a caso, già dallo scorso anno, sempre nel Regno Unito, come abbiamo scritto sempre su FirstOnLine, BBC con Channel 4 e la stessa ITV, stanno cercando con grande fatica di unire le forze per proporre una piattaforma comune in grado di contenere l’emorragia costate di spettatori dalle proprie reti. Il fattore tempo da un lato e le obiettive difficoltà di congiunzione tra strategie diverse degli operatori privati e pubblici rendono il campo di battaglia particolarmente cruento. L’esperimento inglese, a quanto ha riportato recentemente il quotidiano The Guardian, procede con grande fatica e per il momento non ci sono accordi definiti.
I ricavi delle reti commerciali generaliste free to air in tutta Europa, sempre secondo Merril Lynch, diminuiscono progressivamente del 3% annuo mentre, al contrario crescono quelli degli operatori streaming. Gli operatori dei servizi pubblici non se la passano meglio: secondo quanto pubblicato recentemente dall’EBU (European Broadcasting Union) i fondi destinati al sostegno e allo sviluppo delle emittenti controllate dai diversi stati sono in progressiva riduzione. Da osservare che, nella classifica europea, chi se la passa peggio è la Rai che da alcuni anni vede ridurre il proprio budget in modo costante, sia sul fronte canone, sia sul fronte della raccolta pubblicitaria a fronte di una mole di impegni richiesti sempre più onerosi e impegnativi.
Opportuno ricordare che proprio la Rai anche per il corrente esercizio finanziario è stata privata del cosiddetto “extragettito” dovuto per la corresponsione degli introiti da canone recuperati con la lotta all’evasione. In questo contesto si colloca la presentazione delle linee guida, avvenuta la scorsa settimana, del nuovo piano industriale previsto dal recente Contratto di servizio tra Il Servizio Pubblico e il MISE, la cui scadenza è per il prossimo 7 marzo. Secondo quanto reso noto da Viale Mazzini, il piano si dovrebbe concentrare su una stretta connessione tra contenuti e Web dove “… le reti diventano interpreti dei bisogni dei consumatori focalizzandosi su palinsesti sempre più cuciti su misura” e “il prodotto viene messo al centro con la definizione di specifiche direzioni di contenuti concentrate sull’innovazione di genere e sulla multifruibilità”.
Una prima analisi di quanto esposto porta ad evidenziare ancora una volta un deficit di progettualità strategica rilevante: come è possibile infatti fronteggiare una crisi prospettica di tale portata come quella della quale si parla riportando da un verso sulle reti la responsabilità dell’interpretazione del mercato e della conseguente proposizione di nuovi contenuti senza ipotizzare, per altro verso, solide e concrete basi economiche sulle quali poggiare. Non appaiono sufficienti le generiche dichiarazioni di attingere “alla ottimizzazione dei costi – senza alcuna contrazione occupazionale – ma attraverso una minor sovrapposizione dei palinsesti, alla riduzione delle inefficienze, alla revisione dei fabbisogni del settore informazione che resta per la Rai cruciale” nella consapevolezza che gli impegni richiesti e previsti vanno ben oltre i miglioramenti gestionali sul fronte delle spese. È sufficiente ricordare quanto necessario per attuare i nuovi canali (in lingua inglese e istituzionale) come pure gli adeguamenti tecnologici in previsione dell’obbligo della copertura del 100% del territorio nazionale per rilevare quali potrebbero essere le difficoltà.
Ma il vero tema è che il piano industriale, insieme a quello editoriale del quale invece non si conoscono tracce, dovrebbero rappresentare esattamente il percorso di sviluppo, la direttrice di marcia di un servizio pubblico che potrebbe e dovrebbe affrontare una sua radicale revisione della sua ragione “sociale”. La domanda che spesso viene formulata è esattamente quale dovrebbe essere la sua natura, la sua missione, rimodulata e aggiornata alla luce di un quadro sociale, culturale e istituzionale che non è e non sarà mai più quello di quando la Rai è nata e cresciuta. Lo scenario descritto dagli analisti di Merrill Lynch è stato definito apocalittico e irreversibile. Sull’apocalisse, facciamo gli scongiuri, sull’irreversibile forse qualcosa si potrà fare.