Il vice presidente della Federal Deposit Insurance Corp. americana (FDIC) ha pubblicato il testo di un suo intervento tenuto a Parigi lo scorso 23 maggio. Il tema era il capitale delle banche. Passando in rassegna letteratura e statistiche dal 1869 ad oggi Thomas M. Hoenig dimostra che esiste una relazione positiva tra entità del capitale, misurata attraverso il leverage ratio calcolato sui valori tangibili, e la stabilità finanziaria ed economica.
Questo risultato era atteso; meno scontata la relazione con le performance: nella prospettiva storica di lungo periodo non è vero che una minor quota di patrimonio assicura un maggiore rendimento. Dalla grande depressione sino all’inizio della grande crisi bancaria del 1980 la patrimonializzazione delle grandi banche USA è diminuita dal 13% a meno dell’8% salendo successivamente al 2007 all’11%.
La dinamica del Roe (rendimento del patrimonio) appare contraddittoria nel senso che al calo storico della quota di mezzi propri non è seguita una proporzionale crescita del suo rendimento. Indicazioni simili si traggono dall’andamento del Roa (rendimento del totale attivo).
La stessa propensione a concedere prestiti appare muoversi in sintonia con la patrimonializzazione: più una banca è capitalizzata e più tende a finanziare l’economia. D’altro canto più patrimonio si ha e meno si pagano gli ulteriori fondi chiesti a titolo di capitale.
La conclusione è dunque non solo a favore di più patrimonio nelle grandi banche, ma a sfavore di tutte quelle manovre lobbistiche (attualmente all’opera) volte a manipolare i coefficienti regolamentari escludendo dagli attivi determinate categorie di impieghi ritenuti a minor rischio: come i derivati i quali sono strumenti intrinsecamente a leva che, come noto, sono stati decisivi nell’ultima grave crisi.
Le politiche governative debbono dunque puntare a rafforzamenti patrimoniali “veri” e non ad introdurre nuove regole meno rigorose sulla valutazione degli attivi. Comprenderei tra questi marchingegni le spinte alle fusioni che nel caso di istituti non omogenei per patrimoni e capacità reddituali hanno sempre finito per essere deleterie.
In tale contesto, fa una certa impressione leggere certe esternazioni di esponenti governativi che richiedono a gran voce aggregazioni di banche. Aggregazioni che da un lato sono lesive della concorrenza e dall’altro rischiano di portare all’unione di organismi caratterizzati da criticità di non poco conto.
In coda all’intervento, Hoenig riporta una tabella con un elenco di grandi banche “sistemiche” negli Stati Uniti e in altri paesi (G-SIBs Global Systemically Important Banks). I dati riferiti al 31 dicembre 2015 danno la seguente graduatoria che riprendo in ordine inverso di patrimonializzazione (rapporto % tra capitale netto tangibile e totale attivo tangibile):
Deutsche Bank (DE) 3,01
Banco Santander (SP) 3,24
Société Générale (FR) 3,73
Unicredit (IT) 3,81
BNP Paribas (FR) 3,99
Seguono altre con oltre il 4%.
Il rapporto per tutte le G-SIB statunitensi è del 5,97%, per le 10 maggiori con attivi inferiori ai 550 miliardi di dollari è 8,31% e per quelle sotto il miliardo di dollari (le più piccole) è 9,76%. Dunque, una nuova prova che la crescita della dimensione porta una minore efficienza e una minore conseguente stabilità; salvo contare beninteso sul salvataggio di questi pachidermi a carico delle pubbliche finanze anche nei tempi del bail-in.
Circa la non convenienza di spingere le banche ad aumentare la loro dimensione oltre un certo limite rimando alla lettura del celebre Report on Consolidation (pubblicato dal Gruppo dei Dieci nel gennaio 2001), l’unica ricerca realmente attendibile fatta propria a suo tempo dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, dal Fondo monetario internazionale e dall’Ocse.
Si legge a pag. 11 della traduzione italiana diffusa da Bankitalia: “…solo banche piccole possono realizzare incrementi di efficienza attraverso un ampliamento della loro dimensione”; e gli attuali sviluppi delle tecnologie digitali e dell’interconnessione lasciano chiaramente prevedere che in futuro la parola economie di scala diventerà sempre meno usata. Anche nelle banche prevarrà dunque la dimensione intermedia?