Keynes riteneva – non senza una punta perfidia attributo per i continentali della sua isola – che Montesquieu fosse il più grande economista francese, quando in Francia era celebrato per altri meriti. Al di là di tutto, Keynes aveva buone ragioni. Una potrebbe esser colta nelle intuizioni del baron de Secondat et de la Brède sui mali dell’Italia. Ai suoi tempi solo Italia e Germania erano “divise in un numero infinito di piccoli stati” con governi “martiri della sovranità” altrui. Le grandi nazioni esistenti schiacciavano ogni germoglio di quella sovranità che i piccoli stati pretendevano esercitare senza riuscirvi. Tutto ciò aveva pesanti risvolti anche nelle faccende economiche e non solo politiche. I principi italici erano dimezzati in materia di moneta, dogane, fisco e, in altre parole, industria e prosperità dei propri sudditi.
L’era presente di globalizzazione rischia di ricacciare la nostra economia in una situazione analoga. L’Italia unita aveva compiuto un grande sforzo per affrancarsi da una condizione di servitù nei confronti delle potenze straniere. Solo lentamente il nostro paese si era sottratto a un destino interamente segnato da grandi potenze. La conquista di sovranità è passata per un processo di risorgimento politico, ma corroborata solo a condizione che i governi nazionali sapessero creare un ambiente territoriale di convivenza civile nella quale permettere a ciascuno di perseguire, in pace sicurezza e libertà, e realizzare i obiettivi di prosperità secondo le proprie doti di abilità, intelligenza e laboriosità. Lo stato garantiva quella socialità necessaria alle valorizzazioni delle capacità. Raggiungere una sovranità economica era condizione per poter perseguire con efficacia politiche economiche secondo le priorità stabilite dai governi che si succedevano. In termini moderni, la piena occupazione, la stabilità monetaria e un benessere diffuso potevano essere ambiti e, in buona parte, raggiunti solo se si riusciva a tenere a bada quelli che in economia sono detti i “vincoli esterni”, di bilancia dei pagamenti con l’estero e di cambio. La sovranità era il requisito per poter volere e decidere, altrimenti tutto era vano e non restava che soggiacere.
Capire le condizioni di partenza serve non poco a comprendere quelle in cui ci troviamo oggi. Montesquieu ci aiuta ancora indicando due aspetti: di massa critica e di grado di apertura. Nel ’700 – ci ricorda con sarcasmo – alcuni stati della penisola avevano quasi meno sudditi di quante non fossero le concubine di qualche sultano d’Oriente. Ciò aveva conseguenze economiche e, poi, politiche di non poco conto. Stati troppo piccoli per aver pretese di sovranità erano necessariamente «aperti come un caravanserraglio», obbligati a ricevere e lasciare andare chiunque. In tali regimi la libertà “di passo” si combinava spesso con sistemi politici oppressivi per i residenti: «società aperte» solo in un senso. Per creare un sistema-paese occorreva mettere ordine in una situazione così caotica nella quale nessuno poteva seriamente desiderare radicarsi con affetti e capitali. La diaspora di intelletti italici fu massima proprio allora e proseguì in seguito, con due parentesi per i primi 50-60 anni dopo l’unificazione e nei primi decenni del II dopoguerra.
Nel lessico settecentesco coloro che si insediavano su un territorio, in via permanente o provvisoria, erano distinti per Nazioni in riferimento alla provenienza, alla lingua e ai costumi. Il paese tipo caravanserraglio, sprovvisto di uno ius loci, si limitava a ospitarli. Nemmeno gli indigeni potevano sentirsi in Patria.
In Italia una certa massa critica fu raggiunta solo dopo l’Unità, ma la medesima oggi non è più sufficiente per dare una patria e una sovranità. Ciò vale anche per la Germania. L’Europa è la nostra massa critica ineludibile per non ritrovarci ancora nel caravanserraglio. Il rischio di ricaderci lo abbiamo corso, e abbiamo anche intravisto quali conseguenze possono derivare dalla politica come scambio di piaceri e della legge come strumento di potere, e abbiamo accertato verso quali soggetti un capo di governo si sia prostrato in quella stessa maniera servile con la quale pretendeva di venir ossequiato a casa propria. Se un paese vuole uscire dalle satrapie di tipo orientale e non accetta che sia la sovranità degli altri a decidere sul proprio destino occorre anche riprendere (con l’Europa) quel compito arduo che si chiama Patria, parzialmente portato a compimento con l’Italia. Si tratta cioè di costruire non solo un’unione ma un sistema solidare nel quale la giustizia sia rispettata e data, la reputazione onorata per il merito che ciascuno dimostra e altrettanto avvenga per il giusto riconoscimento da dare all’impegno civile e sociale frutto di una cooperazione collettiva continua. Senza la patria c’è il caravanserraglio.
Vi sono altri rischi di ripiombare in quel ’700 di piccoli stati, empori di beni e crocevia di mercanti, alla mercé «dei rovesci e dei capricci della sorte». La stessa Unione europea, così com’è, non aiuta. La protezione dai rovesci e dai capricci del destino, oggi come nella cultura di due-tre secoli fa, si traduce in protezione dei mercati e dai mercati. Gli spazi dell’azione politica stanno lì dentro. La protezione dei mercati è un’esigenza oggi ovvia e corrisponde alla promozione dell’integrazione e del buon funzionamento dei meccanismi dei mercati aperti e concorrenziali. Nella buona economia la sovranità non è dei mercati, ma dei consumatori (il mercato è uno strumento non un valore), come si apprende da qualsiasi manuale elementare d’economia. Per esser davvero buona economia occorre che la sovranità, quella legittima, sappia difendere dai mercati quando questi sono lontani dal funzionare bene e dall’essere aperti come dovrebbero. Nel 2008 è bastato il crollo di grande banca come Lehman Brothers a creare la peggiore crisi dopo quella del ’29. Il caso Lehman dimostra che, questa volta, la crisi finanziaria non è avvenuta per contagio ma per frana di un pilastro che non si riteneva portante. Il compito di far funzionare bene i mercati non è facile ma ben più difficile è il secondo compito: proteggere l’economia e la società. La crisi dei debiti sovrani in Europa ha dimostrato tutti i limiti e l’incompiutezza del progetto europeo sotto questo profilo. La dimensione attuale della finanza e dei mercati finanziari sovrasta quella statuale com’era ai tempi di Montesquieu e anche prima. Specialmente in ambito finanziario il potere di mercato raggiunto negli ultimi decenni da alcuni conglomerati non è tollerabile per la sospensione nei loro confronti del diritto fallimentare e per il pericolo di rivedere espropriata da mercanti e banchieri la sovranità degli stati (anche in questo la storia delle signorie italiane dovrebbe insegnare). Il capitalismo senza fallimento non è più capitalismo. Qualcuno trucca il gioco quando fallire diventa un ricatto che mette in questione la sopravvivenza del mercato stesso, con tutte le conseguenze sociali del caso.
Di fronte a questo l’Europa non ha protetto la sua economia dalla crisi dei mercati finanziari e dalla speculazione che da essa ha preso vigore. I diritti di cittadinanza nell’area euro (ancora non definiti) si sono squagliati rapidamente mostrando che non era la stessa cosa aver residenza da una parte o da un’altra. Squilibri preesistenti (e da non convergenza) si sono accentuati in mancanza di regole di aggiustamento precise, stabilite in anticipo. E’ prevalsa la vecchia logica della ritorsione delle formiche sulle cicale. Un’Europa così com’è né protegge i mercati né ci protegge dai mercati e il rischio che ognuno si ritrovi nel proprio caravanserraglio esiste.
Dal ’700 alcuni stati nazionali hanno cominciato a costruire la propria sovranità seguendo con ritardo l’Inghilterra che, oltre alla rivoluzione politica e al principio rule by law (cioè governare nel rispetto della legge), si era dotata di una banca d’emissione e di un debito pubblico unificato e a prova di default per sottrarre il proprio stato dalla tirannia dei mercati. L’Europa di oggi deve ancora completare lo stesso passo per non tradire la propria tradizione di civiltà aperta. Esso implica anche di porre la legge sopra a tutto e a tutti, con una costituzione che non sia dettata da lobby e mercanti, altrimenti, il pericolo è quello di ricadere ancora più all’indietro, in un feudalesimo magari opulento, connesso via internet, ma con nuove forme di vassallaggio e di corvée. Qual è il vantaggio di sostituire al mondo di cavalieri, chierici e contadini un mondo nuovo, tutto tecnologico e formato da una triade inquietante e meno romantica di società mercantili a caccia di rendite, alti burocrati pronti a offrirle e masse di proletari straccioni? Anche in questo modo il potere autentico e arbitrario starebbe altrove, con un destino che ritorna a sfuggire dalle nostre mani.