Il nuovo contro il vecchio, i vagiti sempre più forti e più convinti delle (più o meno) nuove leve contro i colpi di coda dei grandi vecchi, sempre più vicini, ormai, a quello che sembrerebbe essere il loro ultimo ballo.
È questo il tema delle finali di conference della Nba, penultimo atto nella corsa al titolo di campioni, una corsa nel senso più letterale del termine, visti i ritmi serratissimi che ha assunto questa stagione a causa del lockout.
Due sfide affascinantissime, queste, tra quattro squadre che paiono trovarsi di fronte ad uno specchio, la propria avversaria, nel quale è possibile scrutare, a seconda dei casi, il proprio passato o il proprio futuro.
Ad est i Miami Heat dei nuovi big three (Lebron, Wade e Bosh, per i pochi che non lo sapessero), dopo la soffertissima vittoria all’overtime nella notte tra mercoledì e giovedì conducono due a uno sui Boston Celtics dei vecchi big three, Allen, Garnett e Pierce.
Per Boston, dopo il successo del 2008 e la sconfitta nella finale del 2010 (dove si arresero solo in gara 7 ai Lakers di Kobe Bryant), questo è davvero l’ultimo ballo, il passo di commiato di una carriera meravigliosa, mentre per gli Heat e per Lebron è il viatico per la rivincita, dopo la finale persa malamente lo scorso anno.
Tra le due questa sembra essere la serie più indirizzata, perché i Celtics sono oggettivamente pochi e vecchi, e la definitiva esplosione ad altissimi livelli del loro playmaker Rajon Rondo, autore in gara 2 di una strepitosa prova da 44 punti (a cui vanno aggiunti 10 assist e 8 rimbalzi) e solo 3 palle perse, pur essendo rimasto in campo per tutti i 53 minuti di gioco, sembra non poter bastare a compensare il naturale, e dignitosissimo, declino dei vecchi assi, specialmente quello del malconcio “He got game” (dall’omonimo film di Spike Lee di cui era il protagonista) Ray Allen.
E anche perché la solidissima organizzazione difensiva dei verdi di Boston non sembra essere sufficiente a limitare lo strapotere, prima di tutto atletico, di Wade e James, più incisivi che mai in contumacia Bosh. Nella prima gara in casa, nella notte, Boston si è affidata al tifo indiavolato di un’arena caldissima e al suo famoso Pride, l’orgoglio celtico, che, unito all’orgoglio dei suoi campioni, è bastato a portare a casa una vittoria per 101 a 91, grazie soprattutto a Pierce e Garnett.
Di fronte a loro, come sempre, Lebron James, ad oggi il giocatore più dominante che si possa ammirare su un campo da basket, oltre che il più odiato e amato, atteso alla sua prima vittoria di squadra dopo i tanti successi individuali (è stato incoronato Mvp della stagione regolare per la terza volta) e dopo le deludenti, ad essere generosi, finali dello scorso anno. Ha ancora tempo per farlo, ma il tempo inizia a stringere, per colui che si è autonominato “il prescelto”, l’erede designato di Michael Jordan.
Sull’altra costa le cose sembrano invece più complicate. Dopo aver vinto in casa gara tre, nella notte tra giovedì e venerdì, i giovani rampanti degli Oklahoma City Thunder hanno accorciato le distanze con i San Antonio Spurs di Tim Duncan (diventato, nel corso della partita, il giocatore con il maggior numero di stoppate nella storia dei playoff, superando un mito come Kareem Abdul-jabbar) portandosi sull’1 a 2, grazie ad una grande prestazione corale e all’apporto offensivo insperato dei suoi gregari, su tutti l’ex guardia di Biella Thabo Sefolosha, autore di 19 preziosissimi punti.
Anche queste due squadre, Spurs e Thunder, per certi versi si somigliano molto. Appare chiara, infatti, in quasi tutte le sue scelte (a partire da quella del Gm Presti, formatosi proprio negli Spurs), l’intenzione di Oklahoma di ispirarsi a San Antonio (vincitrice di quattro titoli negli ultimi 13 anni) nella gestione della propria franchigia.
Entrambe sono squadre costruite attraverso il draft, infatti, dotate di un fuoriclasse assoluto, rispettivamente Tim Duncan e il campione in fieri Kevin Durant ( il ragazzo si farà, questo è certo) affiancato da un playmaker velocissimo e letale, Parker per gli spurs e Westbrook per i Thunders, e da un sesto uomo mancino di diabolica intelligenza, come Ginobili e Harden.
A distanziarle, però, oltre a due sistemi di gioco che più diversi non potrebbero essere, è l’anagrafe, visto che l’età media dei big di San Antonio supera abbondantemente i 30 anni (con il picco delle 36 primavere di Duncan), mentre il più “anziano” tra i campioncini di Oklahoma, Kevin Durant, di anni ne compirà 24 a settembre.
Entro la fine di giugno sapremo chi avrà vinto il titolo Nba. Ma, come dice il poeta, non è tanto la destinazione che conta, quanto il viaggio, il percorso che si fa per raggiungerla.
Per cui godiamoci questa lunga strada lastricata di sudore e talento, di estasi e disperazione. Godiamoci lo scontro generazionale in atto nelle finali di conference, uno scontro generazionale che diventa anche scontro filosofico, tra la ferrea organizzazione dei sistemi di Boston e San Antonio e il loro spettacolare gioco corale, e il gioco rapsodico di Miami e Oklahoma, che preferiscono affidarsi agli assoli cadenzati dei loro campioni.
Godiamoci lo scontro tra l’orgoglio dei vecchi campioni plurititolati (specie quelli di San Antonio) e la fame dei giovani che ancora non hanno conosciuto la gioia della vittoria dell’anello Nba.
Mettetevi comodi, sarà un lungo, emozionante cammino. Noi vi terremo aggiornati.