Chi è Aleksej Navalnyi? Un nuovo Sakharov? O il Trotskij dell’era Putin? La nipote di Nikita Krusciov, recentemente intervistata sul destino del grande accusatore dello “Zar”, comincia a pensare che farà la fine del secondo, più che quella del primo. “Cercheranno di eliminarlo a ogni costo”, ha detto la docente di Relazioni internazionali alla New School di New York, ora a Mosca per un periodo sabbatico. Anche lei partecipa alle manifestazioni per la liberazione del politico russo che ha fatto dell’opposizione a Putin la sua ragione di vita. E come tutti gli altri russi è rimasta meravigliata dalla “mitezza” della condanna che il tribunale di Mosca ha deciso per Navalnyi: 3 anni e 5 mesi, che scendono a 2 anni e 8 mesi, visto che l’imputato ha già scontato 10 mesi ai domiciliari.
“Mite”? Sul serio sono stati “miti”? il ragionamento è questo: il potere può fare quello che vuole, ora mostrare generosità, ora stringere la presa fino alla crudeltà. Insomma, poteva andare peggio. È chiaro a tutti che Navalnyi è un prigioniero politico. La condanna che ha subìto è chiaramente un pretesto: colpito perché si era sottratto alla libertà vigilata non presentandosi dal giudice di sorveglianza. E come avrebbe potuto fare, ha ricordato Navalnyi stesso in aula, visto che si trovava in coma dopo essere stato avvelenato da uomini dell’ex Kgb? D’altronde, la stessa condanna alla libertà vigilata per un caso di appropriazione indebita nella filiale russa del gruppo francese Yves Rocher era stata definita come “motivata politicamente” dalla Corte europea dei diritti umani.
I fatti risalgono al 2014. Navalnyi e suo fratello Oleg furono giudicati colpevoli di storno e riciclaggio ai danni di due filiali della società di cosmetici francese. La frode, secondo l’accusa, riguardava 30 milioni di rubli, pari a 330 mila euro, sottratti all’azienda sotto forma di commissioni indebite. I due fratelli si rivolsero alla Corte di Strasburgo che definì l’intero processo “arbitrario e irragionevole”, condannando Mosca perfino a un risarcimento per i Navalnyi. Acqua fresca per la Corte Suprema russa, che se n’è infischiata della sentenza europea e ha di nuovo messo l’oppositore di Putin sotto accusa.
E tuttavia né il processo “arbitrario” né il destino di Navalnyi avevano fatto breccia nel cuore dei russi fino a questo momento. La popolarità di Aleksej, come quella di ogni altro dissidente in Russia, è sempre stata più ampia all’estero che in patria. Ed è per questo che Putin ancora oggi può fare impunemente la faccia feroce contro quelle che definisce “le interferenze occidentali” negli affari russi.
Ora Navalnyi si trova nella prigione di Matrosskaja Tiscina, lo storico penitenziario federale a nord di Mosca. Ma rischia di essere deportato in una qualunque prigione nell’immenso territorio russo, una volta che la sentenza sarà definitiva, dopo l’appello. “E ci resterà a lungo”, come ritiene Catherine Bolton, ex corrispondente da Mosca per il Financial Times e autrice di un bel libro sul cerchio magico dello zar, “Gli uomini di Putin”, edito in Italia da La nave di Teseo. L’unica speranza perché cambi qualcosa, a suo parere, sono l’inasprimento delle sanzioni e le manifestazioni di massa. È quello che spera anche Navalnyi. In verità, lui, da nazionalista convinto, punta tutto sulle manifestazioni. “Se solo partecipasse il 3% dei russi, cadrebbero come un castello di carta”, usa dire ai suoi.
Insomma, basterebbe che un solo milione di persone scendesse in piazza per costringere Putin a mollare. Dopotutto, è la storia della Russia: anche un piccolo manipolo di bolscevichi, nel 1917, riuscì a sconvolgere il mondo mettendo in pratica una teoria, il comunismo, che, fino ad allora, si era trovata solo in un libro di filosofia. E, ironia della storia, come allora, è sempre dalla Germania che è partito un altro (piccolo) Lenin, non in un treno blindato, ma in un aereo e sotto gli occhi di tutti. Per il momento, a essere onesti, Navalnyi non sembra poter scardinare nulla, tantomeno il potere di Putin. Ma stavolta i russi non sono rimasti indifferenti: l’arresto all’uscita dell’aereo di un uomo che era stato avvelenato quattro mesi prima ha suscitato grande emozione nel Paese, spingendo alla protesta centinaia di migliaia di persone, in piccole e grandi città. E, paradossalmente, le manifestazioni nei centri minori hanno fatto effetto più dei grandi numeri della protesta delle grandi città, Mosca e Pietroburgo in prima linea. Come quelle 6 persone di Ribinsk, a nord di Mosca; o i 18 di Tula, la città patria dell’industria militare, a sud della capitale; o i 122 di Vladivostok, silenziosa sentinella di confine con la Cina, all’estremo oriente del Paese.
Un segnale di insofferenza, non a favore di Navalnyi, dicono gli osservatori attenti, ma contro le stesse facce che da oltre venti anni rappresentano il Paese. Insomma, contro la politica di Putin, che non rende più orgogliosi e nemmeno più sereni. Com’è potuto accadere? Il putinismo si potrebbe dividere in tre le fasi:
- la prima è stata di attesa, quando Eltsin, nel 1999, sceglie Putin come suo successore. I russi sanno che dalle file del Kgb possono uscire i migliori e i peggiori uomini politici: lui avrebbe fatto parte dei primi o dei secondi?
- Dopo l’attesa è venuto l’appoggio sincero: l’economia a gonfie vele, spinta dal prezzo alto del petrolio, arricchiva i russi, mentre sul piano internazionale il Paese tornava a essere protagonista, rimettendo un piede nel Mediterraneo dopo tanti anni, intervenendo in Siria prima e in Libia dopo. Epoca d’oro culminata con lo sradicamento del terrorismo ceceno e lo scippo della Crimea all’Ucraina (ma i russi lo chiamano recupero alla madrepatria), avvenimenti che fanno schizzare alle stelle la popolarità di Putin. Pazienza se il mondo occidentale condanna con le sanzioni l’annessione della Crimea (i russi se ne fanno presto una ragione) e pazienza anche se all’interno del Paese non esiste praticamente opposizione (anche a quello si è abituati). Nel frattempo, la capitale esplode in bellezza. Chiunque sia arrivato a Mosca negli ultimi anni ha trovato una città straordinaria, allo stesso tempo fascinosa come al tempo degli Zar (quelli veri e quelli comunisti) e straordinariamente moderna. Le linee della metro e dei treni si sono moltiplicate per mettere la Capitale in comunicazione con il resto del Paese. Sono aumentati i parchi e i super grattacieli, mentre le più grandi marche del mondo del lusso si ammassano lungo le vie del centro. E ora?
- La fase che il Paese sta vivendo ora potrebbe essere quella del tramonto. Il sole è ancora rosso fuoco, potente come non mai, ma si sa che è destinato a sparire. Il Covid ha dato un colpo durissimo alle ambizioni dello zar. L’economia vive un momento di grande difficoltà: sebbene il calo del Pil previsto per il 2020 (-3%) sia risibile in confronto a quello di altri Paese europei (a cominciare dall’Italia, con il suo -8,8%), sono proprio i dati economici a spaventare di più Putin. E il timore è che Navalnyi, o chi per lui, possa approfittarne. Finora i russi non si sono (quasi) accorti del capitalismo, neppure nelle fasi iniziali dell’accumulazione delle enormi ricchezze pubbliche in mano a pochissimi ras del Pcus. La stragrande maggioranza ha continuato a essere accompagnata dallo Stato dalla culla alla morte, con sostegni per acquistare casa, sussidi per sopravvivere, bassissime rette per frequentare le università, pensioni in giovane età. Ora non è più possibile. Il primo colpo di piccone è stato dato proprio alle pensioni: Putin è stato costretto ad alzare il requisito anagrafico a 65 anni per gli uomini e a 63 per le donne. Intanto, il piano contro la povertà è fallito e l’aiuto annunciato agli imprenditori piccoli e medi non è arrivato.
E allora, che fare in attesa che maturino le solite condizioni per il cambiamento?
I russi, quelli dell’intellighenzia silenziosa soprattutto, per il momento sono tornati nelle loro cucine a raccontarsi barzellette che prendono in giro il potere. L’unica differenza con i tempi di Breznev è che ora girano su WhatsApp. E che, almeno per il momento, non si va in galera per così poco. Prendete l’ultima, sulla storia della lussuosa villa a Gelengik, località turistica sul mar Nero, che secondo le accuse di Navalnyi, diffuse in un filmato visto su Youtube oltre cento milioni di volte, Putin si sarebbe fatto costruire. La storiella parte con la rivelazione (autentica) dell’amico di karate di Putin, l’imprenditore Rottemberg, che quella villa è sua. Seguono altre confessioni di uomini noti, chiaramente assurde, fino ad arrivare a quella di Putin, che non sa dove si trova Gelengik. La storiella si conclude annunciando che è stata avviata una ricerca per chiarire di chi siano le figlie di Putin, visto che lui le chiama semplicemente “donne”.
Magnifica impotenza, ma anche sublime e furiosa pazienza del popolo russo.
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Parliamo più tosto dei problemi europei.... con quello personaggio penseranno in Russia....
Dal punto di vista di un russo la frase di Putin ”... se fossimo stati noi sarebbe morto...” risulta terribilmente convincente.
Come dargli torto
Fino a quando non arrivera’ un Aleksej Navalnyi totalmente scollegato da qualsiasi supporto occidentale I russi resteranno scettici.