Nel 2016, in quel di Mountain View, la patria di Google che sta alla tecnologia come Barolo al buon vino, la start up Zume lanciò il robot che sfornava ottime pizze nel retro di un pulmino itinerante, con l’obiettivo di assicurare il servizio a domicilio. Nel 2018 la società, ben finanziata dalla giapponese Soft Bank, affrontò l’esame del mercato con l’obiettivo di una valutazione di 2,225 miliari di dollari. Due anni dopo, però, Zume licenziò metà del personale. Oggi i pizzaioli-robot sono stati convertiti ad altro incarico: spazzini, con l’encomiabile ruolo di raccogliere i rifiuti agricoli in appositi contenitori ecosostenibili, a tutto vantaggio della salute dell’Oceano. Ma non dei portafogli dei venture capitalist che hanno pagato a caro prezzo le follie della stagione a tutto tech, quando sull’onda del boom del Nasdaq (salito di 11 volte dal 2009 all’inizio del 2022), i mercati finanziari hanno finanziato ogni tipo di idea, anche le più strambe.
Gli “epic fail” della Silicon Valley
Il Wall Street Journal, impietoso, fa un elenco delle idee finite nelle varie discariche di Silicon Valley. Si va dai Google glass caduti nell’oblio alla rovinosa storia di Quibi, la piattaforma che avrebbe dovuto sgominare Netflix con una programmazione di storie brevi via smartphone. Un’idea malsana, pur se concepita da geni del calibro di Meg Whitman, ex manager di e-Bay e Hp, oggi ambasciatrice en Kenya, e Jeffrey Katzenberg, già alla guida di Walt Disney. Ma l’elenco è lungo: si va da Plastisher e dagli altri tentativi (vedi Medium), di risvegliare l’industria dell’editoria con l’uso di piattaforme digitali, a servizi basati sull’affitto di droni piuttosto che di scooter. Per non parlare dello staff di dozzine di ingegneri che Amazon ha finanziato per anni alla ricerca dello smartphone di nuova generazione. O dei misteriosi sforzi di Apple per dar vita alla macchina dei sogni, capace di mandare in pensione le vecchie quattro ruote. E che dire del metaverso? Gli esperti continuano a lanciare previsioni mirabolanti, ma per ora il giro d’affari complessivo, tra abiti per Avatar e caschi per navigare nel metamondo, è di soli 1,5 miliardi di dollari, una frazione del traffico di un iPhone.
Dopo il 2022 tutti più prudenti
Insomma, così come accadde all’epoca della bolla di Internet, delusione e sarcasmo si sprecano attorno alle sorti dell’economia futura. Ma l’economia digitale sta pagando a caro prezzo, negli Usa più che altrove, la crisi delle criptovalute, cioè la scommessa più ambiziosa degli ultimi anni. Il tracollo della piattaforma Ftx ha trascinato con sé un’immagine costruita a suon di sponsorizzazioni milionarie, dall’Orange Bowl in su. Certo, indietro non si torna. Ma dopo le batoste accumulate negli ultimi dodici mesi (-35% cica al Nasdaq), i mercati sono assai più prudenti: in parte perché il denaro è diventata merce più rara e costosa sotto la pressione della Fed, in parte perché si è andata ridimensionando l’attesa nei “miracoli” del futuro. Vale per Tesla, a suo tempo giudicata alla stregua di una start up tecnologica dalle prospettive illimitate, oggi solo un produttore di auto elettriche in competizione con i produttori cinesi e la riscossa di Gm e Ford.
È questo il clima in cui sono destinati a muoversi nel 2022 quelli che già apparivano i nuovi masters of universe: Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg e così via. Già osannati e spesso ammirati, oggi temuti e spesso odiati come i padroni delle nuove ferriere, come i vari Rockefeller o Jp Morgan a fine Ottocento. All’inizio del 2023 i big devono far fronte a due sfide: 1) arrestare l’emorragia sui mercati finanziari, che hanno inflitto perdite 3 volte superiori al tech rispetto al resto del listino, 2) recuperare efficienza, dopo gli eccessi passati, anche a costo di tagli pesanti di investimenti e personale.
Ma saranno in grado i big della tecnologia ad invertire la rotta? E se sì, in quanto tempo? Per tentare una risposta val la pena di partire dall’esame di coscienza all’insegna dell’umiltà che, sotto l’occhio severo della Fed, sta caratterizzando l’inizio del 2023.
La crisi rimescola le carte: big tech pronte a ripartire con umiltà
Il new look è stato inaugurato d’Amazon: il colosso che sfiora un milione di dipendenti, impegnato per mesi in una dura battaglia contro l’emergere dei sindacati interni, ha annunciato un taglio di personale senza precedenti: 18 mila persone. Allo stesso tempo il nuovo ceo Andy Jassy, scelto da Bezos per i tempi grami, ha anticipato un brusco piano di pulizie, cancellando numerosi programmi di sviluppo del gruppo, pesantemente impegnato nello spazio ma anche nel finanziamento dell’auto elettrica Rivian oltre che in decine di nuove iniziative. “Tutte cose interessanti – ha sottolineato Jassy – ma che per anni non saranno che un costo. Oggi non possiamo permettercelo”. Intanto Amazon, che pure ha 35 miliardi di dollari cash (a fronte di debiti a medio termine per 55/56), ha sottoscritto 8 miliardi di bond: l’era del denaro a costo zero è ormai al capolinea.
Altri colossi hanno scelto, talvolta in ritardo, la via dell’austerità. È il caso di Salesforce, che ha annunciato il licenziamento del 10% della forza lavoro, anche di quei colletti bianchi assunto pochi mesi fa, quando si pensava che il rischio recessione sollevato dai rialzi della Fed, fosso solo un brutto sogno. “È colpa mia – ha detto il ceo Mark Benioff – non avevo capito le tendenze del mercato”. Un mea scuola che ha fatto scuola: anche Mark Zuckerberg di Meta ha chiesto scusa per non aver visto le nubi in arrivo, imitato da Jack Dorsey, l’ex numero di Twitter, e da Glen Kelmann, a capo del colosso Redfin, leader dei finanziamenti online sulla casa. “Potessi tornare indietro di 18 mesi – ha commentato – direi che il miglior modo di guidare una società non è di mettere in atto belle idee innovative che colpiscono la fantasia del pubblico, ma di limitarsi a non fare stupidaggini”. Dice al proposito il ceo di Uber: “Sono ancora convinto che siamo di fronte ad un mercato potenzialmente multimiliardario. Ma questi numeri non hanno senso se non riesco a tradurli in un profitto immediato”.
Umiltà, insomma. Non passa giorno senza che non venga accantonato un progetto già abbondantemente annunciato. È il caso del mastodontico esercito di droni di Snap, rinviato a data da destinarsi. Dall’inizio del 2022 oltre mille società tech hanno tagliato 150 mila posti di lavoro, un salasso che non ha provocato reazioni anche perché l’economia americana, trainata dai consumi interni, ha continuato ad assorbire forza lavoro, senza patire più di tanto la cura dimagrante di Alphabet (-12.800 posti) o di Goldman Sachs, che si accinge al taglio di personale più massiccio della su storia che, peraltro, si accompagnerà ad un utile record. Un atteggiamento che piace molto alla Federal Reserve, impegnata a cacciare il fantasma del socialismo, un frutto perverso dell’inflazione secondo la lettura Usa.
Ma basterà a rilanciare l’economia digitale a Wall Street?
Non è da escludere un rally dell’Orso nei prossimi mesi. Ma per avere una duratura inversione di tendenza occorrerà tempo, necessario per sviluppare tendenze e prodotti. Dopo lo sboom della bolla Internet, ci volle un anno buono per celebrare l’irruzione di Google, il motore di ricerca che ha cambiato il mondo. Un po’ di pazienza e lo stesso avverrà per un manufacturing in 3 D, un uso non folcloristico del metaverso e l’avvio della nuova mobilità.
Nell’attesa la battaglia si concentrerà sull’occupazione. La Fed si prefigge esplicitamente l’obiettivo di distruggere più di un milione e mezzo di posti di lavoro per arrivare a una disoccupazione del 4,5%. Quando i numeri si avvicineranno a questo obiettivo, Powell allargherà i cordoni della Borsa. E l’economia digitale sorriderà di nuovo.