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“Napolitano, Berlinguer e la luna”, un libro di Umberto Ranieri sul riformismo nell’era di Renzi

C’è un vecchio detto napoletano per il quale “la ragione è dei fessi”. E’ un’affermazione tra il qualunquista e il triviale che però molte volte si è dimostrata più che realista. Anche se ad aver ragione non sono i fessi ma i perdenti. Umberto Ranieri, dirigente politico del Pci-Pds e via dicendo racconta nel suo nuovo libro “Napolitano, Berlinguer e la luna” le vicende della corrente migliorista fino “all’impetuosa irruzione sulla scena nazionale di Matteo Renzi”, e per spiegarle apre il suo lavoro con un’elegante citazione di Marguerite Yourcenar: “Aver ragione troppo presto equivale ad avere torto”.

E i miglioristi, i riformisti del Pci, da Amendola a Napolitano, da Chiaromonte e Macaluso ai Borghini, hanno cominciato ad avere ragione ben prima della nascita della corrente (ma fu una corrente?) migliorista. che Ranieri colloca alla metà degli anni ’80.  Già  nella seconda metà degli anni ’60 Giorgio Amendola lanciò la proposta del partito unico della sinistra. Una proposta, quella, di ampio respiro e di grande coraggio, ma arrivata fuori tempo. Appunto “troppo presto”. Il Pci era ancora legato e quanto all’Urss, il Psi aveva avviato l’unificazione con i socialdemocratici (anche quella fallirà) ed era impegnato ad andare al Governo nel primo Centro-sinistra che doveva fare i conti con la robusta opposizione del Pci e le palesi resistenze della destra democristiana.

Il libro di Ranieri è soprattutto l’occasione per ripercorrere e soprattutto ripensare criticamente quella che è stata la tragedia della sinistra italiana: la mancata convergenza tra i suoi due riformismi, quello socialista di Nenni, Saragat e Craxi e quello che i miglioristi cercavano di far crescere, incontrando terribili resistenze nel Pci.

Una convergenza quella tra socialisti ed ormai già ex comunisti che non fu possibile trovare neanche all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Pesarono in quell’occasione due macigni. Il primo, descritto con grande vigore ed onestà intellettuale da Ranieri, fu l’anticraxismo viscerale (di questo aggettivo mi assumo piena e totale responsabilità) della stragrande maggioranza degli ex comunisti. Il secondo macigno fu l’assoluta convinzione di Bettino che con i comunisti (post o meno che fossero) una convergenza politica di lunga durata non poteva avvenire prima di un’inversione dei rapporti di forza tra i due partiti. Mitterand in Francia aveva potuto vincere le elezioni alleandosi con i comunisti, perchè il partito di Marchais (che era ben più massimalista dei comunisti italiani) era largamente minoritario.

Mi accorgo che, seguendo le vicende descritte da Ranieri, non sempre riesco a contenere la passione politica. Conosco da tempo Umberto, siamo della stessa città, nella quale quando eravamo ragazzi abbiamo fatto politica non insieme, ma contemporaneamente (lui nel Pci, io nel Psi) e credo che entrambi siamo tra coloro che vorrebbero morire (doverosi gli scongiuri) “socialdemocratici”. Mi sono così sentito quasi personalmente colpito da un titolo infelice del “Corriere della sera” che, proprio presentendo il libro di Ranieri, definiva i miglioristi come  riformisti “con il culto di Lenin”. Certo nel Pci si leggeva, si discuteva e si ragionava sul leninismo, ma di qui a identificare come leninisti i miglioristi ce ne passa. E toccò proprio ad un giovanissimo Ranieri essere insultato, per aver avanzato dei dubbi sulla radiazione di quelli del “Manifesto” in una assemblea del Pci con il grido: “Sei un menscevico Umberto Ranieri”.

Del resto, se andiamo alle angosciose vicende del dramma Moro, va riconosciuto ai miglioristi e per la verità a tutto il Pci, di aver avuto un atteggiamento di grande rigore etico-politico nell’opporsi a qualunque cedimento alle richieste dei brigatisti e dei terroristi. Senso dello Stato. Altro che leninismo!

Il libro di Ranieri si conclude con una grande apertura di credito a Matteo Renzi. Non la condivido, pur riconoscendo all’ex sindaco di Firenze, il merito (e che merito!) di aver risolto l’ennesimo inutile falso problema che agitava il Pd: l’ingresso a pieno titolo tra i socialisti europei. Insomma: se moriremo socialdemocratici lo dovremo a Renzi. Al tempo stesso condivido la critica spietata di Ranieri al “vecchio”(termine che non mi piace) Pd, compresi gli inutili eccessi delle campagne per le primarie con affermazioni sciocche del tipo “Renzi è un infiltrato della destra”, oppure: “se Renzi vince lo cacciamo”. D’accordo con Umberto: ci vuole senso della misura.  Ma siamo sicuri che quel senso della misura, il quale sarebbe spesso mancato a D’Alema, sia nella disponibilità dell’ex sindaco di Firenze?

Giunto a conclusione del suo racconto racconto Ranieri scrive che “alla ricostruzione del profilo culturale e programmatico del Pd potrebbe contribuire un’ispirazione politica che si riferisca ai valori del socialismo liberale”. Poi si interroga: “muoverà in questa direzione il Pd guidato da Matteo Renzi? Si vedrà”. D’accordo. Vedremo, e speriamo. I conti si fanno con i fatti e i fatti (fa bene Umberto a metterlo in forte evidenza) sono che Renzi ha vinto e soprattutto che Cuperlo alle primarie ha preso solo il 18 per cento. Però so anche che se si parla di rapporto Svimez, Cuperlo sa di che si tratta. Renzi non lo so.

E visto che c’è la prospettiva del socialismo liberale, spero anche che Renzi conosca Salvemini e Rosselli. Ma, e questo non è certo colpa sua,  l’ex sindaco, nella sua formazione politica non credo abbia mai avuto la fortuna di incontrare, come invece è capitato a Ranieri e Petruccioli con Giorgio Amendola, chi gli rivolgesse “un perentorio invito a leggere più libri di storia”.

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