Non è tutto oro quel che luccica. Spesso ignoriamo ciò che non vediamo, ma non vuol dire che non possa nuocere alla nostra salute o all’ambiente. È il caso del biossido di titanio, indicato (non sempre) nelle etichette alimentari come E171, noto additivo utilizzato nei cosmetici, farmaci e perfino negli alimenti, prodotto spesso in forma nanometrica.
Dal sale ai dolci fino al latte. Le nanoparticelle sono ormai ovunque. Si tratta di aggregati di atomi e molecole, talmente piccoli da non essere visibili all’occhio umano: 50mila volte più piccole di un capello. E anche se non le vediamo non vuol dire che siano innocue e tantomeno che possano essere ignorate.
Tuttavia, il biossido di titanio non è l’unica sostanza chimica nano considerata un rischio dai ricercatori. Ci sono anche l’oro, l’argento, lo zinco, il biossido di cerio e quello di silicio e molti altri ancora, i cui effetti sull’uomo e sull’ambiente sono ancora lacunosi e oggetto di numerosi studi e valutazioni scientifiche.
Il cibo è “nanofood” quando durante la sua coltivazione, produzione, elaborazione o imballaggio ci si avvale della cosiddetta nanotecnologia, la scienza che progetta e realizza nanostrutture. Di queste ce ne sono diverse, per funzione, forma o composizione ma tutte hanno almeno una dimensione inferiore a 100 nanometri, dove un nanometro è pari a un milionesimo di millimetro.
Ma se gli effetti sono ancora sconosciuti, perché vengono molto usati nell’industria alimentare? Se si riduce un solido in nanomateriale si aumenta la sua superficie, così da poter ridurre drasticamente la quantità utilizzata, con il vantaggio di un migliore sfruttamento delle sue proprietà. In ambito alimentare vuol dire ridurre gli additivi coloranti e aromatizzanti e si usano per rendere le salse più fluide, sbiancare le creme, rendere alcuni prodotti più croccanti o le preparazioni in polvere meno granulose, ma anche per allungare la data di scadenza dei cibi pronti.
Le domande attorno a questo argomento sono innumerevoli: le nanotecnologie possono migliorare la conservazione degli alimenti, migliorarli o addirittura allungarne la scadenza? Ci sono eventuali rischi per i consumatori? E come interagiscono con le cellule del nostro intestino?
Anche se sono stati approvati passando gli studi di sicurezza, le nanoparticelle presentano proprietà chimico-fisiche diverse e spesso anche molto imprevedibili, avendo una superficie esposta che aumenta esponenzialmente la loro reattività chimica e biologica.
Alcuni studi si sono concentrati sul tratto gastrointestinale, quindi bocca, esofago, stomaco e intestino, altri invece mostrano come le nanoparticelle, una volta inghiottite possano raggiungere attraverso il flusso sanguigno anche il fegato, i reni, i polmoni, il cervello e la milza.
Da un lato c’è il rischio che entrino nel circolo sanguigno, provocando delle conseguenze ancora poco prevedibili. Dall’altro possono entrare in contatto con il DNA. Poi c’è il rischio delle nanoparticelle di plastica, che si formano dalla disgregazione di rifiuti plastici che inquinano i nostri mari, entrando poi a contatto con il pesce e i molluschi che serviamo a tavola. Anche qui gli effetti sono ancora poco chiari.
Sullo base dello studio,invece, condotto da Maria Grazia Ammendolia e Francesco Cubadda dell’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato su Food and Chemical Toxicology, si può ipotizzare un effetto modulante sul sistema endocrino, in termini semplici, potrebbero avere un effetto sulla produzione di ormoni.
Lo studio si basa sull’effetto delle nanoparticelle di biossido di titano sulle cellule intestinali dei ratti. Ciò che è emerso è sorprendente: sui ratti maschi è stato riscontato un aumento del testosterone, anche se effettuato per pochi giorni e con un basso dosaggio.
Tuttavia però secondo Cubadda questi effetti non sono tipici di tutti i nanomateriali, quindi non si può fare di tutta un’erba un fascio, ma bisogna valutare caso per caso. Secondo la normativa europea qualora fossero presenti delle nanoparticelle in un prodotto, oltre a dover essere dichiarato nell’etichetta, deve anche essere precedentemente sottoposto a valutazione da parte dell’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare.
E nel caso dovesse essere considerate un rischio per la salute, l’EFSA ne vieterà l’impiego. In ogni caso, il consumatore deve essere informato su ciò che sta mangiando, invece come molto spesso accade la presenza di queste nanoparticelle non viene neanche menzionata nell’etichetta, come è stato dimostrato anche da una denuncia dell’ultimo numero della rivista svizzera di Bon a Savoir. Basandosi sui risultati di un’analisi di laboratorio che aveva preso a campione 15 prodotti, è emerso che tutti i campioni hanno riportato la presenza di queste nanoparticelle, nonostante nessuno le dichiarasse. Grazie a questi risultati, a partire dal prossimo maggio 2021, i produttori alimentari saranno obbligati a menzionarne l’eventuale presenza.
Tutti questi studi hanno lanciato un allarme sui possibili effetti negativi che queste nanoparticelle possono avere. Proprio per questo motivo, l’Ue oltre a regolamentare l’impiego nei prodotti alimentari è impegnata, allo stesso tempo, a promuovere e finanziare la ricerca per stabilire i possibili effetti, anche se è difficile tenere il passo con lo sviluppo tecnologico del settore. Il problema di fondo, però, è che nella maggior parte dei casi, queste particelle non sono idrosolubili: una volta assorbiti dall’organismo umano si possono accumulare all’interno dei tessuti.
Un lungo dibattito che ancora non ha trovato una risposta. Data l’incertezza sull’argomento, non esiste una regolamentazione internazionale in riferimento ai nanoprodotti o alle loro nanotecnologie che ne stanno alla base. Se il governo francese ha vietato da gennaio 2020 l’immissione nel mercato di prodotti contenenti il biossido di titanio, in Australia invece non sembrano esserci dubbi sulla sua sicurezza. Mentre gli Stati Uniti hanno una bassissima regolamentazione al riguardo.