Si parla da anni della debolezza dell’economia italiana, attribuibile secondo i più alla specializzazione settoriale, focalizzata sulla manifattura e su settori a basso contenuto tecnologico – e per questo esposti alla concorrenza di aree a minore costo del lavoro – e alla prevalenza di imprese di medio-piccola taglia, finanziariamente fragili, e perciò particolarmente sensibili agli shock economici. Il pensiero dominante (per tutti il Rapporto della Banca d’Italia sulle tendenze del sistema produttivo italiano del 2009 – Questioni di economia e finanza, n.45 –, le sue ultime Relazioni annuali e il pensiero variamente espresso dei suoi economisti) assume il mito della grande dimensione, che consentirebbe incrementi di produttività e di efficienza, favorirebbe l’innovazione e l’internazionalizzazione e renderebbe possibile l’adozione delle TIC. La minore dimensione non consentirebbe, invece, di cogliere le economie di scala insite nell’innovazione tecnologica e in tutte le attività a monte e a valle della produzione, che sono ritenute fondamentali per la capacità competitiva delle imprese, e renderebbe difficile assorbire i costi fissi connessi con l’avvio di un’attività di esportazione o di produzione all’estero e le asimmetrie informative riguardanti le modalità di accesso ai mercati esteri. Considera le imprese maggiori meno rischiose e più solide finanziariamente, le minori troppo indebitate, soprattutto a breve termine, quindi più vulnerabili e rischiose. Individua nella finanza i vincoli alla crescita, sposando il mito del financial gap, secondo cui le imprese minori sarebbero tali per vincoli supply-side all’accesso al capitale.
L’analisi condotta sui bilanci delle imprese manifatturiere in Italia dell’archivio Mediobanca, nel decennio 2001-2010 (per i risultati nel dettaglio si veda Venanzi sul n.3/2012 della Rivista di Politica Economica) non sembra supportare questa lettura, confermando quanto emerso anche da altri studi, più o meno recenti (si vedano per esempio Becattini-Bellandi sul n.2/2002 di Economia Italiana e Coltorti sul n.2/2012 di QA Rivista dell’Associazione Rossi-Doria).
L’analisi è stata condotta su un insieme ampio e rappresentativo della manifattura: si tratta di oltre 5.000 imprese, che rappresentano il 60% circa di fatturato e valore aggiunto, il 49% circa degli addetti e il 64% degli investimenti della manifattura italiana, con riferimento agli ultimi dati Istat disponibili di imprese con più di 20 addetti, relativi al 2008.
La prospettiva assunta è dimensionale e italiana. Sono stati confrontati i maggiori gruppi a controllo italiano con le imprese medie (d’ora in poi MI) e medio-grandi e con le imprese italiane a controllo estero[1]. Va detto che l’impresa minore in questa analisi è la media impresa e non la piccola o micro impresa. Ma le MI italiane sono imprese più piccole di quanto il range di addetti che le definisce faccia supporre: le due classi inferiori (50-99 e 100-249 addetti) rappresentano infatti il 90% delle imprese, la media impresa della classe superiore si attesta vicino alla soglia inferiore dell’intervallo e la mediana dell’universo considerato è di 108 addetti. Inoltre, poiché esiste una rilevante “contaminazione” tra le piccole e le medie (la turbolenza più accentuata dell’universo delle MI si ha verso la soglia inferiore), è da ritenere che ci sia una certa similarità di fondamentali aziendali delle piccole con le medie, che sono appunto in prevalenza “ex piccole”. I bilanci utilizzati inoltre considerano le sole attività localizzate in Italia, con l’intento di evidenziare l’apporto nel decennio considerato alla manifattura italiana e al suo sviluppo.
Dall’analisi emergono le seguenti evidenze:
la minore dimensione non perde il confronto con la grande: nel decennio 2001-2010, la minore dimensione non è causa di minore redditività né di maggiore rischio. Anzi, la minore dimensione favorisce l’adattamento alle alterne vicende della congiuntura economica, consentendo di contenere gli effetti negativi negli anni di crisi;
- le imprese minori non sono più fragili finanziariamente di quelle maggiori: anche quando più indebitate, sono solvibili quanto le grandi (ma spesso di più) e mostrano un maggiore equilibrio per scadenza tra impieghi e fonti. Nel decennio considerato hanno rafforzato la loro solidità finanziaria: il miglioramento dell’esposizione debitoria, in un periodo di congiuntura avversa, è derivato non da una contrazione dell’attività, ma piuttosto dal reinvestimento in misura rilevante degli utili conseguiti, mentre i maggiori gruppi e le imprese a controllo estero pagano dividendi anche quando chiudono l’esercizio in perdita, utilizzando riserve di utili precedentemente accumulate;
- la manifattura italiana nel decennio considerato poggia sulle imprese di taglia media, in termini di occupazione e investimenti. I maggiori gruppi hanno processi produttivi de-verticalizzati e de-localizzati, conseguono bassa redditività e sopportano alti rischi; le imprese medio-grandi e a controllo estero li hanno seguiti in parte nella de-verticalizzazione, mentre le medie imprese hanno mantenuto prevalenti gli attivi industriali, hanno conservato i dipendenti e aumentato gli investimenti. Alla diversa dimensione corrisponde dunque una diversa strategia. La proprietà della media impresa crede nell’impresa e, anche negli anni di maggiore difficoltà, continua a fare investimenti per mantenere la sua competitività, salvaguarda la sua forza lavoro, che detiene un know-how cruciale per il suo successo, rinuncia ai margini per mantenere quote di mercato e rinuncia ai dividendi, per autofinanziare gli investimenti o ridurre l’indebitamento e rafforzare la solidità;
- nelle produzioni di nicchia dei settori della manifattura italiana, la minore dimensione consente una maggiore produttività dei fattori produttivi: non è vincente la leadership di costo, ma la differenziazione e la specializzazione qualitativa dei prodotti, che consente prezzi e margini più elevati e favorisce l’export. La maggiore stabilità dei margini sulle vendite delle medie imprese nel decennio considerato e la loro migliore tenuta anche nelle fasi calanti del ciclo economico testimoniano la qualità dei prodotti di queste imprese e la loro forza competitiva sui mercati, anche internazionali.
- le medie imprese delle aree distrettuali fanno meglio di quelle delle aree della grande impresa (si rinvia alla classificazione di Becattini-Coltorti sul n.1/2004 della Rivista Italiana degli Economisti), pur svolgendo lo stesso mestiere e adottando una struttura relativamente simile, e questo è vero soprattutto nei periodi di congiuntura negativa. Sono più redditizie, più internazionalizzate, meno rischiose e finanziariamente più solide. La distinzione non è geografica, ma implica differenze nel modello di business, nella tipologia di prodotti offerti, nell’organizzazione produttiva e distributiva, nell’interscambio in senso lato con il territorio. Il luogo distrettuale produce quindi benefici effetti su redditività e rischio: un “marchio di qualità” che contrasta il calo della domanda e un “contesto sociale” che ammortizza l’impatto della crisi.
Quindi, il supposto vantaggio dimensionale nelle strategie da cui dipende la competitività delle imprese sembra proprio essere un falso mito, figlio di un eccesso di astrazione dell’analisi economica, che non aggiorna i modelli alla varietà e variabilità delle realtà indagate e che soprattutto non distingue le imprese per le strategie produttive e di mercato perseguite. Appare ormai inadeguato ragionare in termini di economie interne all’impresa e di produttività fisica dei fattori. Le produzioni dei settori che maggiormente contribuiscono al valore aggiunto della manifattura in Italia sono produzioni di nicchia e non di massa; non beni di qualità omogenea, ma prodotti differenziati, che evolvono in relazione ai mutamenti della domanda o per contrastare la concorrenza, per i quali i margini non dipendono dall’efficienza produttiva che abbassa i costi, ma piuttosto dalla qualità, dal servizio al cliente, dalla differenziazione e dalla personalizzazione, che consente di alzare i prezzi. Nelle produzioni di nicchia i rendimenti sono decrescenti all’aumentare della quantità, l’innovazione è prevalentemente di prodotto e non di processo e l’aumento della produttività si persegue in termini di maggiore valore del bene prodotto, di snellezza della struttura produttiva che esternalizza alcune fasi della filiera (in prevalenza ad imprese locali collegate a rete) per garantire l’efficienza e ripartire tra più imprese capitale investito e rischio. Le economie possono essere quindi esterne all’impresa ma interne al sistema di imprese, inteso come distretto o catena (anche internazionale) della fornitura. E questo vale anche per le economie di apprendimento, per esempio favorite dal radicamento nei luoghi. Ed è la qualità del bene prodotto che spinge l’export: l’idea che le imprese minori siano sfavorite dalla crescente globalizzazione va dimostrata (appare invece più probabile un loro vantaggio relativo), e i dati micro e macro sembrano smentirla (in proposito Coltorti, sul n.2/2012 di Economia Italiana).
La prospettiva dominante appare viziata dall’eccesso di attenzione sul lato offerta, dimenticando i problemi degli sbocchi di mercato: in fondo, a ben vedere, in maniera non diversa dalle ricette che propone per la crisi attuale. Sul lato finanza, per esempio, assumendo il nesso causale sviluppo del sistema finanziario–crescita e sviluppo reali (che non trova supporto univoco nell’evidenza empirica internazionale), spiega la taglia media o piccola come obbligata da vincoli finanziari esterni (ipotizzando quindi imprese minori più indebitate e meno solvibili) e trascura completamente la prospettiva demand-side, e cioè che potrebbe trattarsi di scelta (vincente) basata su ragioni di opportunità economico-strategica o comunque legate a obiettivi e progetti della proprietà/management (l’impresa “progetto di vita” di Becattini), anche quando i mercati finanziari sono sviluppati e la solvibilità e l’equilibrio finanziario dell’impresa garantiti. Da quanto precede si potrebbero trarre utili indicazioni per le decisioni di policy, se solo si volesse guardare “oltre il mito”.
[1] I maggiori gruppi a controllo italiano sono imprese con fatturato superiore a 3 md di euro o che appartengono a gruppi con fatturato superiore a 3 md di euro o con azionista di controllo pubblico; le imprese medio-grandi hanno almeno 500 dipendenti oppure fatturato superiore a 330 milioni, ma inferiore a 3 md di euro; le medie imprese sono società di capitale che soddisfano contemporaneamente i seguenti requisiti: dipendenti compresi nell’intervallo 50-499, fatturato tra 15 e 330 milioni di euro e non appartenenti a gruppi di grande dimensione.