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Multe per gli anglicismi e gioco delle parti: cosa c’è dietro la battaglia della destra contro i “forestierismi ossessivi”

Tricolore

Si era già notato che fra i primi atti del nuovo governo, oltre a un comunicato di Palazzo Chigi che chiedeva di chiamare la Meloni “il signor Presidente del Consiglio” come se fosse un uomo, si evidenziava l’esternazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano secondo cui “un certo abuso dei termini anglofoni” apparterrebbe “a un certo snobismo, molto radical chic”.
Se ne parlava nel quadro del discorso sulla penetrazione delle parole inglesi in italiano e su cosa a mio avviso si dovrebbe fare per rispondere al fenomeno. In effetti quel che si dovrebbe fare secondo l’avviso di Sangiuliano non l’abbiamo mai saputo, perché dopo quell’esternazione il nostro eroe non ha più parlato dell’argomento. In compenso, è sceso nell’agone nientepopodimeno che Fabio Rampelli, dello stesso partito di Meloni e Sangiuliano, nonché deputato e vicepresidente della Camera.

Il baldo Rampelli e il “patrimonio idiomatico”

Costui, il 23 dicembre 2022, si è fatto primo firmatario di una proposta di legge intitolata “Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione del Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana”. Il testo comincia con un preambolo in cui si afferma che “La lingua italiana rappresenta l’identità della nostra Nazione, il nostro elemento unificante e il nostro patrimonio immateriale” e che va protetta da un degrado prodotto dai seguenti fattori: “l’intrusione di gerghi dialettali appartenenti al cinema e alla televisione; l’uso indiscriminato dei neologismi provenienti dal linguaggio burocratico e scientifico; l’infiltrazione eccessiva di parole mutuate dall’inglese, che negli ultimi decenni ha raggiunto livelli di guardia”.
Tutti questi fattori sono qualificati come “forestierismi ossessivi” che rischiano “di portare a un collasso dell’uso della lingua italiana fino alla sua progressiva scomparsa”. In pratica, i “gerghi dialettali” (ce l’ha forse con gli sceneggiati della RAI in romanesco? o coi film di Alberto Sordi?) e i “neologismi provenienti dal linguaggio burocratico e scientifico” (forse “cronoprogramma”, “rendicontazione”, “sincrotrone”, “neutrini”?) sarebbero “forestierismi”.

I dialetti e le lingue minoritarie

Non solo: anche se gran parte del creativo fervorino iniziale se la prende coi termini inglesi, la legge impone l’uso della lingua italiana a discapito di tutte le lingue straniere, dal momento che “La lingua italiana è obbligatoria per la promozione e la fruizione di beni e di servizi pubblici nel territorio nazionale” (art. 2 della suddetta proposta di legge). Tanti saluti, insomma, alla libertà d’impresa: basti dire che, con questa bella norma pensata per combattere i termini inglesi, non si può più scrivere in dialetto l’etichetta di un prodotto tipico, o il colophon di un libro. Potrà sembrare poca cosa, ma etichette e libri così ci sono, mentre potrebbero non esserci più se entrerà in vigore la proposta di legge del baldo Rampelli.

Peccato che i dialetti rappresentino un “patrimonio immateriale” di alcuni secoli più antico della lingua italiana, col quale sono sempre stati in rapporto interlocutorio, arricchendo la lingua stessa.
Per fortuna, l’art. 1 della suddetta stabilisce almeno che la legge si applica “nel rispetto della tutela delle minoranze linguistiche”, ma anche così il danno arrecato alla varietà, e quindi all’appetibilità, culturale del paese è alquanto vandalico. E questo nonostante, secondo il preambolo rampelliano, si renda “necessaria, come in Francia, una legislazione che tuteli il nostro patrimonio idiomatico sul piano economico, sociale, culturale e professionale nonché su ogni altro piano ritenuto importante”.
Presumendo che per tutela del “nostro patrimonio idiomatico” non s’intenda promuovere l’uso di frasi idiomatiche come “menare il can per l’aia”, “fare il pesce in barile”, “dare il fuoco al paglione” o “prender fischi per fiaschi”, c’è da ricavare da questa limpida prosa che il baldo Rampelli voglia tutelare il “nostro patrimonio linguistico”, di cui fanno parte, come risulta evidente, anche i dialetti e le lingue minoritarie. Invece, una legge che impone indiscriminatamente la lingua italiana in tutti i contesti mette a rischio quel patrimonio.

Un articolato assai disarticolato

Basti pensare che, secondo l’art. 3 della proposta di legge, “Ogni tipo e forma di comunicazione o di informazione presente in un luogo pubblico o in un luogo aperto al pubblico ovvero derivante da fondi pubblici e destinata alla pubblica utilità è trasmessa in lingua italiana” e “Per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica organizzata nel territorio italiano è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di traduzione e di interpretariato, anche in forma scritta, che garantiscano la perfetta comprensione in lingua italiana dei contenuti dell’evento”. Ma dov’è il rispetto delle minoranze linguistiche? Se in Sudtirolo vogliono presentare un libro in tedesco ci dev’essere l’interprete? E chi lo paga, Rampelli?
L’art. 6 stabilisce che “Negli istituti scolastici di ogni ordine e grado nonché nelle università pubbliche italiane le offerte formative non specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana. Eventuali corsi in lingua straniera sono ammessi solo se già previsti in lingua italiana” (ma che vuol dire?), “fatte salve eccezioni giustificate dalla presenza di studenti stranieri, nell’ambito di progetti formativi specifici, di insegnanti o di ospiti stranieri” (e qui casca l’asino, con rispetto parlando: gli studenti stranieri vengono se possono studiare in inglese, altrimenti vanno altrove, quindi la norma o è vessatoria o è inutile).

La nascita di un Comitato per la tutela linguistica

L’art. 7 della proposta di legge stabilisce che “Presso il Ministero della cultura è istituito il Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana nel territorio nazionale e all’estero”, fra i cui componenti c’è il “Ministro della cultura” (sì, proprio quello che dice “snob” e “radical chic” in un’esternazione contro i termini non belpaesani).
Fra i compiti di tale Comitato c’è “l’arricchimento della lingua italiana allo scopo primario di mettere a disposizione dei cittadini termini idonei a esprimere tutte le nozioni del mondo contemporaneo, favorendo la presenza della lingua italiana nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (questo certamente serve, ma non si vede perché lo debba fare un Comitato formato tra l’altro “da tre membri del Parlamento”, sperando che non scelgano Di Pietro o Razzi: in Italia c’è già l’Accademia della Crusca per questo e in Francia, citata a sproposito nel preambolo, esistono commissioni speciali presso i ministeri, dal momento che servono termini di ambito specialistico, e che un Comitato di 12 membri difficilmente può essere depositario di onnicomprensiva scienza tuttologica).
Inoltre, il suddetto organo dovrebbe occuparsi “dell’uso corretto della lingua italiana e della sua pronunzia nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità”: cosa significa? Manderanno gli ispettori nelle scuole a verificare la “corretta pronunzia”? E quali saranno i modelli, forse Rampelli, che ha una “pronunzia” chiaramente regionale e scrive con lo stile chiaro ed elegante che abbiamo visto fin qui?

A chi le multe previste dai 5.000 ai 100.000 euro ?

L’art. 8 è anche l’ultimo, nonché quello finito sulle prime pagine dei giornali: “La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro”.
Da lì, apriti cielo: quando la notizia è uscita, tra fine marzo e inizio aprile, si sono sprecati titoloni come “Rampelli (FdI) vuole una legge per punire chi non usa l’italiano: multe fino a 100mila euro” (La Stampa), “Rampelli (FdI): Multa fino a 100.000 euro per chi usa termini inglesi (Il Corriere della Sera), “Lingua italiana, FdI presenta una proposta di legge per multare chi si macchierà di forestierismo” (La Repubblica), e così via.
Ora, la legge come abbiamo visto è scritta male, è autoritaria e per tanti aspetti inapplicabile, oltre a creare un organo inutile e probabilmente anche dannoso, purtuttavia non c’è affatto scritto che le multe sono per chiunque, anche un privato cittadino, usi un termine inglese (altrimenti, come ha spiritosamente scritto l’Huffington Post, “Con le multe di Rampelli per chi usa termini stranieri un partito andrebbe in bancarotta. Il suo”). I titoli, insomma, hanno peccato di sensazionalismo, innescando così un dibattito viziato dalla cattiva informazione.
Va però ammesso che, se la proposta di legge ha ricevuto praticamente solo commenti negativi, questo non è dovuto soltanto ai titoli dei giornali, o alla prosa criptico-asinina in cui è scritta la legge: c’è un tratto caratteristico dell’opinione pubblica italiana che entra in gioco. Facciamo un esempio.

Il riflesso condizionato della Rete

Angelo Greco è un avvocato molto conosciuto su YouTube: creatore di contenuti assai prolifico. Greco pubblica ogni giorno video in cui dispensa consigli legali sui temi più vari. Come richiede il suo ruolo (di avvocato che deve partire dal dettato della legge, nonché di youtuber con un pubblico vasto, da non contrariare con scivoloni comunicativi pena la perdita di seguaci), il personaggio è di solito scanzonato ma neutro circa l’argomento trattato. Ha cominciato di recente a fare qualche eccezione, prima con un video garbatamente critico circa lo scudo fiscale (“prendete il digestivo che ne avrete bisogno” e “mannaggia Meloni, ma cosa mi combini”), e poi, per l’appunto, sulla legge Rampelli in cui parla fra l’altro di spreco di tempo “spiazzante e demoralizzante” a scrivere il testo, di “sanzioni così elevate” da “rimettere in discussione la scala dei disvalori giuridici tanto che ai firmatari di questo disegno di legge farei studiare giurisprudenza”, di legge che va contro la libertà di espressione e che “se dovesse essere approvata sarebbe dichiarata anticostituzionale il giorno dopo” e di necessità di difendere la lingua italiana “non solo dagli ignoranti, ma anche dai deficienti”.

Evoluzione o involuzione

A me pare chiaro che giudizi così duri contro Rampelli e gli altri firmatari (più duri di quelli riservati agli estensori delle norme che salvano gli evasori fiscali) non siano frutto di una riflessione giuridica, ma di un riflesso condizionato: forse per sviluppata allergia al purismo fascista, forse per anglo(americano)filia inveterata, forse per indisciplina (anche) linguistica, fatto sta che l’italiano medio risponde da sempre “la lingua si evolve” a qualunque discorso critico relativo alla qualità della lingua che parliamo ogni giorno, come se di una riflessione sul tema non ci fosse bisogno. Ho dedicato precedenti puntate ad argomentare che, invece, il bisogno ci sarebbe; inoltre, vorrei prossimamente parlare di cosa s’intenda davvero con evoluzione della lingua, aldilà della frasetta di comodo usata per chiudere le discussioni.
Anticipo che non tutto quello che passa come “evoluzione” è tale, ad esempio il ridurre il campo di applicazione della propria lingua a favore di un’altra rappresenta piuttosto un’involuzione.

Come promuovere il corretto uso dell’italiano?

Qui vorrei ribadire che, secondo me, il modo migliore di promuovere un corretto uso dell’italiano (aldilà della “pronunzia”, che non c’entra nulla con la questione degli anglicismi e della proprietà lessicale), è dare il buon esempio: poiché gli italiani sono allergici alle imposizioni e anche alle multe (come questo governo sa benissimo quando si tratta di evasione fiscale), il modo migliore per arrivare a un discorso pubblico che utilizzi un linguaggio di migliore qualità è che chi porta avanti e stimola il discorso pubblico, dunque anzitutto politici e giornalisti, parli meglio, anziché in modo sempre più stereotipato e modulare (pensiamo a “tirare per la giacchetta”, “una tragedia annunciata”, “fatto a capocchia”, “legittimamente”, “questo è”, “inqualchemmodo”, ecc.).
Di questo nuovo stile farebbe parte anche una drastica riduzione dei termini inglesi usati a sproposito, non tanto per esterofobia, quanto per non scendere di registro e mantenere uno stile coerente. Poi certo, politici e giornalisti, come ho già argomentato, per riuscire davvero nell’intento dovrebbero farsi consigliare bene: non da Rampelli e Sangiuliano, ma da persone con competenze tecniche nel campo della linguistica, ossia da apposite commissioni ministeriali sul modello francese e dall’Accademia della Crusca.

L’opinione della Crusca

A proposito di quest’ultima, ecco cos’ha dichiarato il suo presidente, professor Claudio Marazzini, all’agenzia Adnkronos: “La proposta di sanzionare l’uso delle parole straniere per legge, con tanto di multa, come se si fosse passati col semaforo rosso, rischia di vanificare e marginalizzare il lavoro che noi, come Crusca, conduciamo da anni allo scopo di difendere l’italiano dagli eccessi della più grossolana esterofilia, purtroppo molto frequente”. E ancora: “L’eccesso sanzionatorio esibito nella proposta di legge rischia di gettare nel ridicolo tutto il fronte degli amanti dell’italiano. Un intervento poteva essere eventualmente concordato con chi da anni, come noi, si occupa del problema. Ora, ahimè, in questa polemica, troveranno spazio anche maggiore tutti quelli che, con la scusa del fascismo e del nazionalismo, ostacolano ogni tentativo di realizzare un’equilibrata convivenza tra le esigenze di internazionalizzazione e la pur legittima attenzione alla lingua nazionale, sovente calpestata ed estromessa senza motivo. Ora urleranno: ecco, avevamo ragione noi!”. Traggo queste informazioni dal sito https://italofonia.info, non affiliato alla Crusca ma a mio parere utile e competente in questa materia. Fra l’altro, si tratta del sito che ospita il repertorio AAA, ossia Alternative Agli Anglicismi (aaa.italofonia.info), che non è un elenco di invenzioni ridicole come certe trovate dell’epoca fascista (neanche loro tutte ridicole, come ho cercato di spiegare), ma al contrario presenta termini già utilizzati (ad esempio “dopobarba” per after-shave) o comunque trasparenti e intuitivi.

Il gioco delle parti in televisione

Per concludere, vorrei segnalare che gli opinionisti televisivi su queste cose (e su altre?) non difendono davvero le proprie opinioni, ma fanno il gioco delle parti: ho già riferito ai lettori del battibecco a “Otto e mezzo” fra Tomaso Montanari, che criticava le esternazioni di Sangiuliano tessendo le lodi dell’apertura del linguaggio alle parole straniere, e Alessandro Giuli, che le difendeva perché le parole inglesi sarebbero “più brutte” di quelle italiane. Ebbene, qualche giorno fa, nella stessa trasmissione, il popolare duetto andava nuovamente in scena, questa volta con Montanari che parlava di “cambio climatico” (giustamente o quasi, dato che il termine più usato è “cambiamento climatico”) e Giuli che gli rispondeva dicendo “il climate change”. Ma come, i termini stranieri non erano “brutti”? Forse di brutto c’è soprattutto la cattiva fede.

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