Il mercato promuove Andrea Orcel, ma concede una prova d’appello al Tesoro. Il test di Piazza Affari dopo il fallimento della lunga trattativa per la cessione di Monte Paschi ad Unicredit non si è tradotto, come temuto, in un tracollo dei titoli interessati. L’istituto di Piazza Gae Aulenti, anzi, dopo un avvio in profondo rosso, riemerge dalle nebbie e a metà giornata si porta in pareggio addirittura in terreno positivo. Soffre di più, come logico, la mancata preda toscana. Ma, dopo la sbandata iniziale (fino a -8%, sotto un euro di valore), la banca si riporta sopra 1,06 euro, con una perdita di poco superiore all’%.
Non è difficile interpretare questo verdetto: piace Unicredit libera dalla zavorra di un dossier comunque assai politicizzato. Diverso il copione per Siena. Il Tesoro dovrà inventarsi qualcosa per evitare, al di là delle conseguenze sociali e politiche, il tracollo di un asset controllato al 64% e che ha già comportato sacrifici miliardari. Ma prima dovrà concordare con Bruxelles un’estensione della scadenza fissata per la ri-privatizzazione della banca per poi colmare il deficit di capitale (3 miliardi almeno).
Dopo aver acquistato tempo (a pagamento, ben s’intende) sarà comunque necessario scegliere. Due le strade possibili per trovare i fondi: l’intervento di uno o più cavalieri bianchi sul mercato oppure l’aumento da parte del socio pubblico, che però le norme europee concedono solo dopo l’azzeramento del valore di azioni e bond subordinati per 1,75 miliardi. Ma in questo caso gli aiuti di Stato farebbero scattare il cosiddetto “burden sharing” che le autorità europee, con l’obiettivo di proteggere i contribuenti, impongono agli investitori di una banca in crisi di sostenere parte dei costi di ristrutturazione prima che lo Stato possa intervenire iniettando nuovi fondi pubblici.
Una prospettiva che il mercao ha preso assai sul serio. Per Keefe, Bruyette and Woods non ci sono “altre banche attualmente interessate ad acquisire Mps e quindi l’aumento di capitale diventerà l’unica opzione, che dovrebbe essere altamente diluitiva per gli attuali azionisti“. E così i bond subordinati del Monte (lower tier 2), compresi i due di maggiore importo (scadenza 28 gennaio 2028 e 10 settembre 2030) lasciano sul terreno tra il 17 ed il 19 %, così come l’emissione al 22 gennaio 2030 trattata poco sopra 63 punti. Una frana che non stupisce perché per natura questi bond, rimborsati solo dopo i crediti ordinari, sono più simili a strumenti di capitale che non ad obbligazioni. E a confermare le ansie del mercato basti aggiungere che il costo dell’assicurazione per l’esposizione al debito della banca senese vede oggi un’impennata ai massimi dell’ultimo anno: i credit default swaps (Cds) a cinque anni del Monte sono balzati di 101 punti base dalla chiusura di venerdì, vicini ai massimi degli ultimi dodici mesi a 270 punti base, secondo i dati di IHS Markit.
Ma per completare il campo di battaglia non si può non allargare lo sguardo a Banco Bpm, il titolo più effervescente della giornata, con un rialzo di tre punti abbondanti. E’ la banca di piazza Meda il vero protagonista di questa tappa del risiko. L’istituto di piazza Meda è sulla carta l’unico (almeno in Italia) che, invogliato anche dagli sgravi fiscali, possa affrontare la sfida di Siena. Altrimenti, come lascia intuire l’aumento del titolo, Bpm sarà la prossima possibile preda di Unicredit che ha interesse ad allargare la sua quota in Italia e così fronteggiare la corazzata Intesa. Meno credito riscuote la pista Bper, oggi comunque in rialzo un punto e mezzo.
Ma per ora la palla torna nel campo di Unicredit che pubblicherà la trimestrale giovedì prossimo ma soprattutto si accinge ad illustrare il nuovo piano industriale a novembre. Equita loda “la disciplina del management di Unicredit nel non voler perseguire a tutti i costi un deal che, se non perfezionato sulla base delle condizioni definite a luglio, avrebbe potuto alimentare dubbi sul rischio di esecuzione dell’operazione e sul fronte della crescita dell’utile per azione”.
Il broker sposa la tesi dell’istituto che non si è mosso dalla richiesta di 7 miliardi di dote per procedere all’operazione (contro i 5 complessivi, compresi gli sgravi fiscali offerti dal Tesoro). Anche Bank of America si spinge a dire che il fallimento delle trattative ha messo in luce “le qualità di Andrea Orcel: carattere e disciplina, una combinazione rara in molti top manager”. Agli occhi degli analisti, insomma, Orcel resta il “Ronaldo delle banche”. Anche quando non fa goal.