Si capisce dal tono della sua voce che Franco Mosconi, brillante economista industriale dell’Università di Parma dove è titolare della Cattedra Jean Monnet, ha in questi giorni rivissuto con grande emozione il dramma dell’Emilia di quattro anni fa, quando il terremoto lo colse nella notte del 20 maggio 2012 nella sua casa di Carpi che andò in frantumi. “Quando ho visto le immagini del nuovo terremoto ad Amatrice e nel Centro Italia – racconta – ho provato una grande tristezza, acuita dal fatto che questa volta tanti – troppi – bambini hanno perso la vita”. Come spiega in questa intervista a FIRSTonline, Mosconi è convinto però che dal terremoto si possa rinascere e che quello dell’Emilia, dove dopo il sisma la vita e l’economia sono ripartite, forse non sia un modello facilmente esportabile ma è di sicuro un buon esempio. A a due condizioni: che fin dal primo momento della ricostruzione sia chiaro “chi fa che cosa” e che le istituzioni e la società civile facciano fino in fondo la loro parte. Ecco le sue riflessioni.
Professor Mosconi, che cosa ha provato quando ha sentito del terremoto nel Centro Italia di mercoledì?
“Una grande tristezza perché la gravità di questo sisma è apparsa subito davanti ai nostri occhi; una tristezza acuita dal fatto che questa volta tanti – troppi – bambini hanno perso la vita”.
Il terremoto Lei lo ha vissuto in prima persona quattro anni fa in Emilia: ci racconta come andò?
“Ci furono due scosse mortali a distanza di una decina di giorni l’una dall’altra. La prima, nella notte fra sabato e domenica ed era il 20 maggio 2012; la seconda intorno alle 9, seguita da un’altra alle 13 , del martedì 29 maggio. In tutt’e due vi furono morti, feriti e danni materiali a Chiese, scuole, case e fabbriche: ma la seconda, giunta quando tutti i bambini e i ragazzi – dagli Asili nido alle Superiori – erano in classe con i loro insegnanti, è stata quella che ha maggiormente toccato la vita quotidiana di noi tutti, anche dal punto di vista psicologico. Trascorremmo in centinaia, migliaia di genitori un pomeriggio d’altri tempi: all’aperto, nei parchi e giardini cittadini con i figli, sia per far passare un po’ la paura, sia per (ri)organizzarci in vista di un periodo che si prospettava assai difficile”.
Che danni procurò il terremoto a Carpi e, in generale, nel modenese?
“A Carpi i danni furono soprattutto nel centro storico, dove abita la mia famiglia: tutto il centro, a partire dalla grande Piazza Martiri, venne delimitato dalla Protezione Civile come “zona rossa”. Ma non fu Carpi la città maggiormente colpita: Mirandola, San Felice sul Panaro, Finale Emilia, Cavezzo (dove il 75% degli edifici si piegò tra le macerie) hanno pagato un tributo molto più grande sia in termini di vite umane che di danni materiali”.
La ricostruzione a Carpi e nelle altre zone terremotate dell’Emilia è finita? Quanto tempo e quante risorse ha richiesto e l’economia è ripartita?
“La ricostruzione è, in generale, a buon punto ma bisogna distinguere fra città e città proprio in dipendenza delle diverse condizioni post-sisma. Lei mi chiede in primis di Carpi: i lavori di ristrutturazione della Cattedrale sono terminati e questo dà il senso di un pieno ritorno alla normalità. D’altro canto, quasi tutte le altre chiese – un patrimonio artistico di grande valore – sono ancora inagibili. Se poi ci spostiamo di poche decine di chilometri a Mirandola, lì le ferite del 2012 nel centro storico sono ancora visibili. Ma questo tipo di ricostruzione, si sa, richiede tempo e molte risorse. In Emilia sono stati concessi contributi per abitazioni e imprese di un un miliardo e 770 milioni e 1,9 miliardi per i comparti dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, mentre per la ricostruzione e la riparazione di edifici pubblici e beni culturali i danni computati sono stati di un miliardo e 705 milioni di euro.
Infine, Lei mi chiede dell’economia: sì è ripartita. Le due cittadine di cui stiamo principalmente parlando sono, non da oggi, sede di due dei più importanti distretti industriali italiani: Carpi per il tessile-abbigliamento, Mirandola per il biomedicale. Entrambi continuano a realizzare buone performance (ottime nel caso di Mirandola) in un contesto nazionale e internazionale che come raccontate quotidianamente sul vostro giornale online è tutt’altro che facile”.
Paradossalmente il terremoto, al netto delle incommensurabili perdite umane, può essere un’occasione di rilancio dell’economia?
“Gli investimenti per la prevenzione, in un Paese a forte rischio sismico come il nostro, sarebbero stati nei passati decenni una delle più lungimiranti politiche pubbliche: una intelligente politica neokeynesiana, se vogliamo (ma c’è ancora qualcuno che la vuole derubricare a politica del passato?). Ora l’imperativo categorico è rappresentato dagli investimenti per la ricostruzione per ridare una casa a chi non ce l’ha più: ad Amatrice e negli altri paesi duramente colpiti fra Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche in questa settimana, così come in tutti gli altri luoghi del Paese dove le calamità naturali (terremoti e alluvioni) hanno colpito in questi anni (decenni)”.
Quali sono stati i volani della ripresa post-terremoto in Emilia?
“Ne vorrei ricordare almeno due. Una “catena di comando” molto chiara, col presidente della Giunta regionale massimo responsabile della ricostruzione. E una straordinaria mobilitazione della società civile, dove con questo non intendo solo il nobile impegno delle organizzazioni del volontariato e no-profit ma anche gli sforzi degli imprenditori. Visitare Mirandola per credere: non solo il distretto, dopo il sisma, non s’è perduto ma è oggi più forte che mai, con nuovi capitali esteri che sono arrivati e nuove infrastrutture per lo sviluppo della conoscenza (il Tecnopolo, ad esempio) che sono sorte”.
Quello emiliano è un modello esportabile anche per il terremoto del Centro Italia?
“Qui in Emilia il terremoto ha colpito in pianura e in una delle zone a maggiore vocazione industrial-manifatturiera d’Italia e d’Europa; là in montagna e in zone con autentici gioielli del Rinascimento e del Medio Evo. Difficilissimo, quindi, fare confronti e paragoni. Ma stabilire con chiarezza “chi fa cosa” resta fondamentale, così come non si può prescindere da una robusta iniezione di fondi pubblici, anche tenendo conto della minor forza – rispetto all’Emilia – dell’imprenditorialità privata in quelle zone. Da questo punto di vista, i primi 50 milioni di euro stanziati dal Consiglio dei ministri di giovedì scorso debbono davvero rappresentare solo un inizio. E’ però altrettanto vero che dovranno essere severissime le regole su come spenderli e come rendicontarli”.
Non Le sembra paradossale che le spese e gli investimenti per il terremoto siano fuori dagli obblighi costituzionali di bilancio e dal Fiscal Compact mentre non così è per le spese di prevenzione antisismica?
“Sono del tutto d’accordo, e torniamo a quello che dicevo dianzi su Keynes, qui e ora”.
Professore, ma perché gli italiani sono sempre molto bravi nelle emergenze e non altrettanto nella gestione dell’economia e della vita pubblica di tutti i giorni?
“Bella domanda, che rimanda al famoso “carattere degli italiani”: creativi, flessibili e reattivi. Tutto giusto, per carità. Ma un po’ di metodo e rigore in più non guasterebbero. E’ stato ricordato in questi giorni lo straordinario risultato conseguito dall’Italia (nel senso di sistema-Paese), fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, con lo costruzione dell’Autostrada del Sole: metodo e rigore lì non mancarono. E’ un qualcosa che dobbiamo ricreare, partendo dai più giovani ai quali sono affidate le nostre speranze”.