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Moriremo democristiani? Per evitare la deriva neo-democristiana, serve una svolta riformatrice

Certo, ad osservare le dinamiche di un sistema politico italiano in rapidissima evoluzione, il rischio di “morire democristiani” è di fronte a noi. E tanto più la crisi morde e minaccia imprese e lavoro, tanto più i vincoli di finanza pubblica costringono a tagliare sprechi e privilegi che dagli anni Ottanta sono stati finanziati con il debito pubblico, tanto più nasce la nostalgia di un sistema che si è retto per alcuni decenni su evasione fiscale e spesa pubblica, protezione dalla concorrenza e svalutazione, impiego pubblico,doppio lavoro e inefficienza dei servizi.

Non è stata certo questa la DC delle origini ,un partito nazionale e popolare, che da De Gasperi e fino agli anni Sessanta ha guidato la ricostruzione postbellica facendo dell’Italia un grande Paese industrializzato e mettendo le premesse del boom economico degli anni Sessanta. Ma nei decenni successivi, è stata la DC con alla testa una nuova generazione che non aveva conosciuto direttamente il fascismo e la Liberazione, che, mentre in altri Paesi ( ad esempio la Germania) partiti fratelli ponevano le basi di una moderna economia sociale di mercato, in Italia , pezzo dopo pezzo, grazie alla crescita esponenziale del debito pubblico realizzava un sistema economico e sociale sempre più bloccato da rendite e da corporativismi.

Un sistema alla cui opprimente crescita non si opponevano nè le forze politiche di opposizione che, ancorché escluse dal Governo nazionale fino agli Novanta, erano però alla guida di Comuni e Regioni, di Aziende sanitarie e di altri innumerevoli enti pubblici; né, naturalmente, i sindacati. Ed è da quella storia che nasce , dopo il 92, con l’apertura del mercato unico e poi con la progressiva integrazione europea, la strutturale difficoltà italiana a diventare un moderno Paese europeo, competitivo sui mercati globali, difficoltà occultate dalla macroscopica anomalia berlusconiana e, grazie a questo grande alibi collettivo, mai affrontate e risolte.

Oggi gli epigoni di quella tradizione occupano posti chiave del Governo, si candidano alla leadership del PD, sono importanti esponenti degli altri partiti della maggioranza. Certo, c’è l’Europa che ci protegge dal ritorno al finanziamento della spesa pubblica in deficit. Ma l’Europa non basta, siamo noi che dobbiamo cambiare, in profondità: per costruire il futuro dell’Italia oggi è necessario un cambiamento che parta dalla condivisione di valori di legalità, di lealtà e di responsabilità civica.

La responsabilità fiscale, il rispetto delle regole, il servizio pubblico da assolvere con dignità ed onore, la concorrenza e il merito come strumenti di una vera equità sociale, la trasparenza come metodo di partecipazione democratica; un’idea della Costituzione che non sia solo garanzia dei diritti ma innanzi tutto assolvimento dei doveri. E’ questa la nuova cultura indispensabile per costruire una economia competitiva ed una società più giusta.

Sono , peraltro, i messaggi che ha dato il Governo Monti ad un Paese sull’orlo del baratro e che poi nella campagna elettorale i partiti, con la opportunistica demonizzazione dell’azione del Governo di emergenza, hanno subito rimosso. E sono gli stessi messaggi che ha dato il Presidente della Repubblica sferzando i partiti e la loro irresponsabile insipienza nel vigoroso discorso di insediamento.

Il Governo Letta, ormai in carica da qualche mese, dopo anni di sterile scontro bipolare avrebbe la possibilità di usare la grande coalizione per realizzare – esattamente come fece Schroeder in Germania all’inizio degli anni 2000 – quelle riforme che , incidendo su rendite e privilegi, possono ridare fiato al Paese, possono convincere gli outsiders, quasi sempre giovani, che è ancora possibile costruire il loro futuro qui, nel loro Paese. Non sembra che si vada in questa direzione: si toglie l’IMU per assecondare la propaganda berlusconiana ritornando ad ondeggiare sul pericoloso limite del 3 per cento; si stabilizzano i precari nella pubblica amministrazione, si lottizzano le nomine nelle Authorithies e non ripartono le liberalizzazioni; si rinuncia a fare un grande piano di coinvolgimento dei privati per la valorizzazione dei nostri beni culturali.

Insomma, non c’è una nuova stagione e la grande coalizione corre il rischio di essere una grande immobile collusione in puro stile neodemocristiano. All’orizzonte si affaccia Renzi, che ai suoi esordi ha dato segni in tutt’altra direzione. E non solo e non tanto per il felice slogan sulla rottamazione di una classe politica che, dopo tante sconfitte, come si usa negli altri Paesi sviluppati, dovrebbe farsi da parte, ma per altri messaggi sulla modernizzazione italiana e sulle grandi sfide che l’Italia con il suo patrimonio di bellezza, cultura, creatività, sapere artigiano e industriale potrebbe giocare nella globalizzazione. Ma questi messaggi si stanno già appannando per rendere possibile l’alleanza con la sinistra del partito, per non avere l’ostilità del sindacato , azionista forte del PD contro il quale sarebbe forse impossibile conquistare la segreteria del Partito.

“Unire” il partito come gli si chiede da parte degli ex popolari vuol dire perdere la sua diversità: vorrebbe dire rinunciare ad un progetto di cambiamento e ripiegarsi su una prospettiva neodemocristiana. Il rischio cui, appunto, alludeva Paolo Franchi. Speriamo che Renzi sappia resistere a queste sirene, si appoggi a chi nella politica italiana vuole rappresentare valori liberali, democratici ed europei e non rinunci alla sua battaglia.

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