Delle due importanti notizie che in questi ultimi giorni sono uscite dal Pd una è buona e l’altra è cattiva. La notizia buona è che il Presidente della Regione Emilia, Bonaccini, ha sciolto la riserva e ora è in corsa per fare il segretario di quel Partito. Quella cattiva è che la Direzione milanese del Pd ha declinato la proposta di Letizia Moratti di essere lei a guidare la coalizione di centro sinistra (Pd, Terzo Polo e lista Moratti) alle prossime elezioni regionali preferendole una minicoalizione di sinistra-sinistra capeggiata dall’europarlamentare Majorino. Sulla notizia buona ci si può solo augurare che Bonaccini ce la faccia, anche perché è l’unico dei potenziali candidati che sembra essere in grado di evitare che il Pd venga risucchiato in una alleanza subalterna con i 5 stelle, cosa, questa, che sarebbe rovinosa non solo per il Pd ma anche per la democrazia italiana. Sulla notizia cattiva, quella della ricusazione della Moratti, è invece necessario riflettere perché rivela una mancanza di lucidità politica nel vertice del Pd davvero preoccupante.
Moratti non vuole entrare nel Pd
Letizia Moratti non è una transfuga del centro destra che chiede asilo al Pd. Non può essere paragonata alla Lorenzini o a Casini che hanno lasciato il centro destra di cui erano esponenti di primo piano e hanno poi trovato accoglienza nel Pd. Moratti non vuole entrare nel Pd. Vuole, invece, contribuire alla formazione di uno schieramento politico che, unendo la sinistra democratica e le forze liberali, possa sostituire alla guida della regione Lombardia prima e del governo nazionale poi il centro destra a trazione sovranista. Moratti è una esponente di primo piano di una élite nazionale che ha a Milano la sua principale roccaforte, limpidamente antifascista e di orientamento democratico e liberale, che ha appoggiato il centro destra quando a dirigerlo era una forza liberale moderata ma che oggi non intende avvallare la sua deriva verso la destra estrema. L’uscita di Moratti dal centro destra segnala perciò con particolare evidenza che si è determinata una frattura all’interno delle classi dirigenti e dell’élite nazionali che sarebbe colpevole cecità non vedere e non apprezzare nel suo reale significato.
Ripristino sinistra democratica e forze liberali: la proposta politica di Moratti
A cosa prelude, al di là della vicenda lombarda, la proposta politica di cui Moratti si è fatta portavoce? Prelude al ripristino dell’alleanza fra i partiti che sono espressione del mondo del lavoro e i ceti produttivi, fra le forze della sinistra democratica e quelle liberali. Questo rapporto c’è stato in passato ed è stato decisivo nei momenti cruciali della nostra storia. Poi si è fortemente indebolito nel corso degli anni 90 sino a scomparire anche a causa della scomparsa di quei partiti di massa che quel rapporto (quel compromesso) garantivano. Oggi andrebbe ripristinato e questo è, mi pare, il significato più profondo della proposta di Moratti.
Candidatura Moratti: il Pd non coglie il valore politico e non è la prima volta
Il Pd non l’ha capito, l’ha derubricato a fatto personale. Non ne ha compreso la portata strategica e lo ha gestito, a Roma come a Milano, in un modo che peggio non si poteva. Del resto, non è la prima volta che un fatto simile accade. Anni fa, come lui stesso ha rivelato in una intervista al Corriere, Massimo Moratti fu sollecitato a candidarsi a sindaco di Milano ma quando ne parlò con D’Alema quest’ultimo per non dire apertamente di no accampo la scusa che si era già impegnato con Fumagalli il quale, infatti, corse per il Pd, fu sconfitto da Albertini e poi scomparve dalla scena politica. Come si può vedere anche D’Alema che si considera un abile stratega allora non capì nulla.
Continua la crisi esistenziale del Pd
Ma forse la ragione di questo strafalcione politico è più profonda e va ricercata nella mutazione che è avvenuta nel principale partito della sinistra italiana nel corso della sua interminabile transizione che l’ha portato dall’essere un Partito indissolubilmente legato alle sorti del movimento operaio italiano e alle classi lavoratrici a diventare un Partito Democratico senza alcuna ulteriore specificazione che ne connotasse la natura e la missione. Un partito che non è né socialdemocratico né laburista e che può essere qualunque cosa il suo gruppo dirigente di turno decida che sia.
Il Pd, per sua scelta, non si proclama più partito del lavoro e dello sviluppo e non fa più dello sviluppo delle forze produttive l’asse della sua battaglia sociale e politica. Se il Pd si proponesse davvero come il partito dello sviluppo, della crescita economica e della giustizia sociale (in questo ordine) allora sarebbe naturale per il suo gruppo dirigente ricercare in via prioritaria un rapporto con i lavoratori, con i ceti produttivi e con le forze che più li rappresentano. Le sue alleanze sociali e politiche sarebbero coerenti con questo orientamento e se così fosse personaggi come Conte, un demagogo azzimato, non verrebbero neppure presi in considerazione e i 5 stelle non verrebbero messi sullo stesso piano di Calenda, Renzi o Moratti. Ma le cose al momento non stanno così. C’è solo da attendere il congresso del Pd sperando che a prevalere siano le componenti riformiste. Auguri!