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Milano, ieri sotto le bombe e oggi contro il Covid: “Ma noi ricostruiremo”

Una fila di parecchie decine di persone, ben mascherate e ben distanziate, aspetta sotto la pioggia che si apra il portone delle Gallerie d’Italia a Milano. Sono adulti, ragazzi e qualche bambino che si sono mossi dalla comodità delle loro case, nonostante tutto, per visitare la mostra di una settantina di fotografie dal titolo «Ma noi ricostruiremo». Sono immagini della città bombardata nell’agosto 1943, tratte dall’archivio Publifoto Intesa Sanpaolo. Tanta gente per una piccola esposizione, contenuta tutta intera in una sala, curata da Mario Calabresi, e corredata di fotografie a colori scattate nella primavera scorsa da Daniele Ratti; si vedono perciò gli scorci di Milano com’erano nell’agosto 1943 e com’erano pochi mesi fa.

Certe fotografie sono di stampo classico e ben note: l’interno del teatro alla Scala in macerie, lo scheletro della Galleria Vittorio Emanuele II contro il cielo, gli ammassi di rovine sulla quali spicca la guglia del Duomo con la Madonnina. Altre meno note raccontano la vita quotidiana dei milanesi afflitti dalla guerra: il carretto che sostituisce il tram perché i binari sono divelti, il pranzo o cena all’aperto, sul bordo della strada, intorno a un tavolo di fortuna, perché la casa è distrutta e l’agosto lombardo riserva una temperatura accettabile.  

Non stupisce che la fila si allunghi a mano a mano che passano i minuti, che ognuno avanzi di pochi metri in tranquillo silenzio, che la disciplinata attesa ripaghi la curiosità, l’interesse e l’impegno. Milano, e c’è da scommettere anche altre città, non offrono soltanto i deplorevoli raduni notturni di gente ammassata a bere e abbracciarsi o quelli diurni per protestare di quasi tutto e contro quasi tutti. Anzi, il bisogno di nutrire lo spirito con il teatro, la musica, le arti figurative, che è vivissimo, è fin troppo mortificato sia da una propaganda perennemente protestataria e lamentosa, sia dalle autorità pubbliche, ministero dei Beni culturali e istituzioni locali, che continuano a considerare la cultura un fattore ludico e non un fattore economico.

Nel clima opprimente della pandemia si vede di tutto: ci sono i fedeli dolenti che, dopo un funerale in chiesa dove i posti sono correttamente distanziati, escono e sul sagrato si abbracciano e si baciano come se il Covid 19 non fosse mai esistito (e magari il defunto o la defunta è mancato proprio a causa del virus); ci sono gli scolari che, a costo di tenere a freno i muscoli, siedono ore e ore nel banco, rinunciano senza lamenti alla ricreazione in cortile; ci sono gli infermieri sgarbati (o stremati?) che negli ospedali, invece di disciplinare i pazienti, si sbracciano e urlano senza risultato e, anzi, finiscono per scatenare piccole risse.

Non stupisce neppure che una serie di vecchie fotografie in bianco e nero susciti tanto interesse: il tema della ricostruzione è fresco e vivo nella mente degli italiani più consapevoli, capaci di guardare alla pandemia con sguardo di lunga portata, con spirito pratico e senza retorica. Chi visita la mostra è confortato dalla constatazione che si può ricostruire, si può ricominciare anche dalle più gigantesche rovine. La seconda guerra mondiale è stata una enorme catastrofe, ma un bel po’ di lutto, di sofferenza e di sacrifici li ha richiesti anche l’attuale pandemia.

Stupisce, caso mai, la rapidità della ricostruzione milanese di tre quarti di secolo fa, quegli undici mesi per ricostruire la Scala e inaugurarla con l’indimenticato concerto dell’11 maggio 1946 diretto da Arturo Toscanini. Stupisce la cura previdente per tutelare le opere d’arte, il Cenacolo chiuso tra assi di legno e sacchi di sabbia, il Napoleone del cortile di Brera incapsulato in una solida armatura e, miracolosamente immune dai colpi, la statua di Alessandro Manzoni in una piazza San Fedele distrutta. 

Nel clima politico e sociale attuale, caso mai, stupisce che il sindaco della Liberazione, Antonio Greppi, abbia detto allora, circondato dalle macerie: «Ma noi tutto ricostruiremo con pazienza». Oggi chiunque direbbe: «Aspettiamo il denaro, poi si vedrà». Stupisce che non ci sia stato bisogno di centinaia di moduli, firmati, controfirmati, timbrati, consegnati nelle apposite sedi in attesa di un sempre troppo tardivo via libera. 

Nella particolare congiuntura autunnale del 2020, dove gli amministratori lombardi non sono neppure capaci di acquistare un po’ di vaccini anti influenzali, non è possibile dimenticare come nel 1945 l’assessora all’assistenza del Comune di Milano, Elena Dreher, si incamminasse per la città senza auto blu, con pochi mezzi pubblici circolanti, a cercare la penicillina per i bambini malati e che, alla fine, trovasse i soldi di generosi donatori per ottenere i farmaci. 

È mai possibile che la colonna sonora della nostra pandemia sia quotidianamente intonata alla protesta, al lamento, all’invettiva e molto poco invece alla pazienza e alla disciplina, al guardare avanti? A ben drizzare le orecchie si può ascoltare anche l’altra musica, quella della folla paziente sotto l’ombrello, che cerca nelle immagini del passato la saggezza e l’incoraggiamento a portare sulle spalle il peso dei momenti difficili, fiduciosa che «noi ricostruiremo» non soltanto gli edifici ma anche una morale un po’ più salda.

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