Settimana decisiva per arrivare ad una svolta nel percorso di risanamento del sistema bancario italiano. “Ormai è stata accettata da tutti l’evidenza che il sistema bancario italiano è complessivamente solido e che non si corre il rischio di crisi sistemiche, mentre è evidente che ci sono alcuni casi ben individuati di crisi che possono essere affrontati con strumenti di mercato. Oppure, se il mercato non dovesse farcela, il governo ha garantito che è pronto a varare un paracadute pubblico per evitare il peggio. E questo ha già modificato il clima di fiducia degli investitori nei confronti dei nostri istituti di credito, come si vede dall’andamento dei titoli bancari in Borsa, anche se il percorso da compiere è ancora lungo. Ma la strada è ormai tracciata”. Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, ha accumulato una vasta esperienza sia del sistema monetario e finanziario, sia del modo di agire e di pensare degli ambienti della Commissione Europea, dove è stato direttore anni fa di un importante dipartimento.
Dottor Micossi, quali sono le ragioni per le quali il nostro paese ha impiegato molto più tempo degli altri a riconoscere le caratteristiche della crisi di alcune banche, ma in generale la difficoltà in cui si trovava il nostro sistema finanziario che è stato costretto, a parità di altre condizioni, a lesinare il credito al sistema produttivo?
“La vicenda storica è lunga e complessa. Certamente abbiamo avuto una crisi economica più forte rispetto ad altri paesi europei e il nostro sistema produttivo ha subito una brusca caduta. Tuttavia le ragioni per le quali abbiamo tardato a prendere per il verso giusto i problemi del nostro sistema bancario sono essenzialmente tre. In primo luogo si è tentata la strada di liberare le banche dalla massa delle sofferenze (Npl) a prezzi corrispondenti a quelli che figurano nei bilanci delle banche i quali, sono ancora oggi in media superiori di circa il 20% a quelli praticati sul mercato. Ma ora si è dovuto prendere atto che non era tecnicamente possibile organizzare su vasta scala un sistema del genere. Unicredit ha indicato con realismo la strada da percorrere: cedere gli Npl a prezzi di mercato e compensare le perdite con un robusto aumento di capitale”.
Unicredit ha anche annunciato una pesante ristrutturazione che passa sia attraverso la vendita di asset non strategici, sia attraverso la chiusura di un rilevante numero di filiali con esuberi di diverse migliaia di persone, il che ovviamente costituisce un rilevante problema sociale ed anche politico.
“Infatti (e questa è la seconda ragione dei ritardi di cui si diceva) tutte le banche hanno preso atto che ricapitalizzare senza ristrutturare non raggiungeva l’obiettivo di un vero risanamento e quindi tutte le aziende stanno cercando di affrontare il problema con fusioni e razionalizzazioni, come sta avvenendo nel campo delle Popolari, o con la riorganizzazione dei propri uffici e delle filiali in modo da risparmiare sui costi potenziando i servizi più redditizi. Sicuramente questo costituisce un problema sociale che le autorità di governo devono approntare con lungimiranza e coraggio spiegando con chiarezza quello che vogliono fare senza temere l’eventuale temporanea impopolarità”.
Tuttavia il problema politico non riguarda solo la gestione degli eventuali esuberi del personale bancario. Più grave e più grande potrebbe essere quello riguardante i possessori di obbligazioni subordinate che, in caso di intervento dello Stato a sostegno della ricapitalizzazione delle banche, dovrebbero subire perdite sulla base delle regole UE del così detto bail-in.
“In effetti si temeva che l’applicazione delle nuove regole avrebbe potuto provocare sia una crisi di fiducia dei risparmiatori verso il sistema bancario sia una forte protesta di tipo politico nei confronti del governo in carica. Insomma, è questa è la terza ragione dei ritardi, si temeva un intreccio di problemi economici e politici che complessivamente avrebbero potuto portare ad un aumento della instabilità complessiva del sistema. Ora questo timore di crisi generale del sistema appare superato, mentre le conseguenze politiche devono essere gestite non attraverso continui rinvii, ma spiegando che il superamento della crisi di alcune aziende di credito potrebbe giovare non solo al complesso delle attività produttive del paese, ma anche agli stessi risparmiatori che dovessero investire in azioni di banche avviate verso il risanamento e quindi capaci di fare di nuovo buoni profitti”.
Naturalmente il problema del Bail-in scatta solo se si dovesse arrivare ad un intervento di natura precauzionale dello Stato nel capitale delle banche. Finora gli ostacoli tecnici e politici illustrati poco sopra , hanno consigliato un rinvio. Ora non c’è più tempo. Occorre affrontare le questioni ed il Governo deve stendere una rete di sicurezza.
“Sì, occorre volontà di decidere e la rapidità nell’adottare gli strumenti necessari. Mi auguro che se si deve arrivare ad un decreto, il Governo abbia il coraggio di stanziare una cifra congrua per far capire a tutti gli operatori che nessuna banca è destinata al fallimento. Si parla di 15 miliardi. Ma poi credo che ne potranno venire utilizzati molti di meno anche perché gli investitori, capito il quadro entro il quale ci si muove, potranno trovare conveniente fare un investimento ai prezzi attuali, che sono alquanto bassi, puntando su un recupero di valore negli anni a venire. Del resto negli Usa ed in Svezia, dove lo Stato è intervenuto nel capitale delle banche poi ne è uscito con un buon profitto”.