“Il rischio è che Unicredit non sia più come prima: non tanto perchè perda l’italianità ma perchè perda la centralità dell’Italia”. E’ l’opinione di Marcello Messori, economista ben noto, ordinario di Economia dei mercati monetari e finanziari all’Università di Tor Vergata-Roma 2, collaboratore del “Corriere della Sera” e già presidente di Assogestioni. In questa intervista a FIRSTonline spiega le ragioni e gli effetti del crollo di Unicredit in Borsa dopo il lancio dell’aumento di capitale ma trae anche considerazioni più generali sul sistema bancario italiano (“E’ un modello da rivedere”). Quanto all’uscita dalla crisi che investe l’Europa e mette in discussione l’euro la sua idea è molto chiara: bisogna trasformare il fondo salva-Stati in una vera e propria banca che abbia mezzi illimitati per sostenere i titoli di Stato dei Paesi europei in difficoltà. Sempre che la signora Merkel se ne convinta in tempo. Ecco l’intervista.
FIRSTONLINE- Professor Messori, l’annuncio dell’aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro è costato al titolo Unicredit una perdita del 38% del suo valore di Borsa in sole cinque sedute con la virtuale evaporazione di 4,6 miliardi di euro di capitalizzazione: s’aspettava una risposta del mercato del genere?
MESSORI – Era prevedibile un forte ribasso del titolo Unicredit in borsa a causa dell’entità dell’aumento (sia in assoluto sia in rapporto alla capitalizzazione della banca), ma anche a causa di altre ragioni. Si consideri, per esempio, che l’operazione in corso fa seguito a una recente ricapitalizzazione indiretta (cashes) e a due precedenti e consistenti aumenti di capitale. Inoltre, lo sconto sul prezzo è stato molto rilevante; si è trattato di una scelta, forse giustificata dalla congiuntura di mercato, ma pur sempre abnorme rispetto ad altre ricapitalizzazioni di gruppi bancari italiani ed europei. Detto tutto ciò, un ribasso dell’entità di quello subito da Unicredit non era prevedibile.
FIRSTONLINE – C’è chi dice che il tracollo del titolo Unicredit in Borsa dipenda prevalentemente da motivi tecnici, chi dall’assenza di reali compratori sul mercato e chi dall’assalto della speculazione su cui sta indagando la Consob: delle tre interpretazioni qual è quella che la convince di più?
MESSORI- Come ho già detto, sull’operazione Unicredit hanno pesato fattori diversi. Resto però convinto che, al di là degli aspetti tecnici e della sfavorevole congiuntura di mercato, un ribasso così vistoso del titolo in borsa sia stato condizionato dal ritardo con cui il management della banca ha percepito la necessità di un’ulteriore ricapitalizzazione. E’ evidente che un’operazione di questa entità non sia giustificabile né con il fatto che l’autorità europea EBA ha imposto regole più severe sui titoli pubblici né con il fatto che Unicredit è stato classificato come banca con impatto sistemico (SIFI).
FIRSTONLINE – Però la Consob ha avviato un’indagine per capire se abbiano influito sul titolo Unicredit anche operazioni corsare della speculazione: Lei si sente di escludere questo aspetto?
MESSORI – Sospendo il giudizio in attesa dei risultati dell’indagine della Consob. Quando si parla di speculazione, bisogna però intendersi. Un conto è se emergeranno operazioni irregolari sul titolo Unicredit, che andranno sanzionate; un altro conto è se il mercato ha scommesso al ribasso su Unicredit, ritenendo insoddisfacenti la tempistica e la modalità dell’aumento di capitale. Si può ovviamente dissentire dal giudizio del mercato; in questo caso, non ci sarebbe però nulla di strano o di riprovevole in quanto è successo.
FIRSTONLINE – C’è chi pensa che il riassetto azionario derivante dal turbo-aumento di capitale faccia sì che Unicredit non sarà più la stessa e che l’italianità della nostra prima banca non sia più tanto sicura: quali sarebbero gli effetti di un terremoto del genere?
MESSORI – Per esprimere un giudizio meditato, dobbiamo aspettare la conclusione del processo di ricapitalizzazione. Vi è però una possibilità rilevante che si verifichi una profonda riallocazione dell’azionariato di Unicredit. Basti considerare che alcuni degli investitori internazionali già presenti nella proprietà, una parte dei maggiori azionisti nazionali (a partire dalle Fondazioni di origine bancaria) e vari azionisti privati non sembrano disposti a sottoscrivere tutte le quote di loro competenza. In sostanza, la futura composizione azionaria di Unicredit tende a essere nelle mani del consorzio bancario di garanzia. Pertanto il rischio che Unicredit cessi di essere la realtà, finora conosciuta, è molto forte; e questa è una ragione di seria preoccupazione perché, se vi fosse un riassetto proprietario di Unicredit gestito dalle banche di investimento, la nostra economia potrebbe perdere un giocatore fondamentale nella difficile partita per la crescita.
FIRSTONLINE – Che vuol dire realmente se sulla prima banca italiana non sventolerà più il tricolore?
MESSORI – Il maggior pericolo non è la perdita dell’italianità di Unicredit ma la perdita della sua centralità in Italia e nei Paesi legati all’economia italiana. Nonostante le sue attuali difficoltà, Unicredit resta il più europeo fra i nostri gruppi bancari e resta una realtà solida e solvibile a livello nazionale e internazionale. Per un Paese come il nostro che ha imprese (anche di successo) molto dipendenti dai finanziamenti bancari e che deve difendere e rafforzare la sua posizione internazionale, è essenziale poter disporre di gruppi bancari ben radicati in Europa ma con il cervello in Italia. Se Unicredit cessasse di adempiere a questo ruolo, sarebbe un bel guaio; il nostro settore finanziario dipenderebbe, sempre più, da un unico gruppo bancario (Intesa-San Paolo). Per giunta, la perdita di centralità di Unicredit si accompagnerebbe alla beffa di un cambiamento del controllo proprietario a prezzi di saldo. Per come stanno andando le cose, oggi si possono acquisire posizioni rilevanti nel capitale di Unicredit a un costo così basso da essere alla portata di moltissimi intermediari europei e internazionali.
FIRSTONLINE – Il caso Unicredit che riflessioni più generali solleva sul sistema bancario italiano? Le nostre banche non sono più quel gioiello che pensavamo fino a un paio di anni fa?
MESSORI – Sta andando in crisi quel modello tradizionale che, fra la fine degli anni Novanta e il 2008, ha permesso alle banche italiane di non dilatare le proprie attività finanziarie ma di ottenere una redditività quasi allineata a quella europea grazie all’amministrazione della ricchezza finanziarie delle famiglie e al forte radicamento territoriale rispetto alle imprese. Questo quasi-monopolio dei nostri gruppi bancari nel mercato finanziario nazionale li ha protetti durante la crisi finanziaria del 2007-’09. La recessione economica e la crisi del debito sovrano nell’Unione monetaria europea hanno, però, rotto il meccanismo. Le sofferenze bancarie e il costo della raccolta sono esplosi, rendendo difficile da gestire quello strutturale e accentuato divario fra prestiti e depositi (funding gap); inoltre, la caduta di valore e l’accresciuta rischiosità dei titoli italiani del debito pubblico hanno appesantito gli attivi delle nostre banche. Nel prossimo futuro, i profitti del settore bancario italiano saranno molto più bassi di quelli raggiunti fino ai primi anni del Duemila. E’ il nostro peculiare modello bancocentrico a essere entrato in crisi. Il rischio più immediato è un pesante credit crunch nei confronti dell’economia reale; il rischio strutturale è un indebolimento dell’apporto dei fattori finanziari alla crescita “reale” della nostra economia.
FIRSTONLINE – Che effetti avrà il caso Unicredit sulle altre banche più in difficoltà?
MESSORI – Penso che, negli altri gruppi bancari italiani con problemi di capitalizzazione, si rafforzerà la componente del management più riluttante a varare aumenti di capitale sul mercato. Se questa tendenza fosse confermata, le vie di uscita sarebbero solo due: la dismissione di attività non strategiche per fare cassa oppure la riduzione delle componenti dell’attivo di bilancio (deleveraging). Queste due vie d’uscita avrebbero un impatto molto diverso sull’economia italiana.
FIRSTONLINE – Cioè?
MESSORI – La vendita di attività o partecipazioni non essenziali sarebbe una scelta di razionalizzazione, priva di conseguenze negative sui flussi di prestito alle imprese e alle famiglie. I processi di deleveraging si tradurrebbero invece nel taglio dei finanziamenti all’economia reale. Il prezzo, pagato dal Paese per rafforzare i rapporti patrimoniali delle banche, sarebbe il credit crunch e, quindi, un nuovo e poderoso ostacolo alla crescita economica.
FIRSTONLINE – Che vuol dire ripensare il modello tradizionale della banca italiana? La propensione al retail e il suo legame con il territorio non sono forse aspetti virtuosi?
MESSORI – Certo che sono aspetti positivi; e non sono questi i tratti della specializzazione bancaria che vanno rivisti. Il punto da ripensare riguarda il quasi-monopolio detenuto dal settore bancario italiano nell’intermediazione della ricchezza finanziaria delle famiglie. Tale intermediazione non può più essere esclusivamente destinata a effettuare prestiti tradizionali alle imprese e a innalzare la redditività delle banche. E’ invece essenziale destinare una quota crescente di questa ricchezza al sostegno delle innovazioni e ai salti dimensionali delle imprese di successo. Se la sfida per la nostra economia è quella di ricollocarsi su un sentiero di crescita, le banche debbono fare la loro parte assumendo un ruolo più dinamico nel mercato finanziario. L’alternativa è netta: o le nostre banche diventano in grado di erogare nuovi servizi finanziari alle imprese di successo oppure devono abdicare dal loro quasi-monopolio e lasciare spazio a operatori finanziari non bancari.
FIRSTONLINE – Non pensa che di fronte alla crisi delle banche italiane si possa immaginare il ricorso a forme di parziale e temporanea ripubblicizzazione come ha fatto il mondo anglosassone ma anche come è successo con Dexia?
MESSORI – Al di là dei vincoli del debito pubblico che impediscono allo Stato di espandersi direttamente nell’economia, non mi pare che siamo a questo punto. Non vedo segnali di insolvenza sistemica nel nostro settore bancario, che siano assimilabili alla situazione statunitense o britannica di tre anni fa. Intesa-SanPaolo è un gruppo bancario con un patrimonio adeguato e con un forte radicamento nell’economia italiana. La stessa Unicredit resta una banca solida che non ha problemi di solvibilità. Per quanto riguarda altre banche italiane di grande dimensione per il mercato nazionale, è difficile generalizzare; si tratta di studiare i problemi caso per caso. Non vedo, quindi, la necessità di interventi pubblici di salvataggio. La crisi obbliga certamente ad essere pragmatici e a non rimanere schiavi dell’ortodossia teorica; ma che senso avrebbe reclamare oggi un intervento del Tesoro o anche della Cassa depositi e prestiti nelle banche italiane? C’è invece una domanda, a cui non si può sfuggire.
FIRSTONLINE – Quale?
MESSORI – La domanda è: vi è un elemento che potrebbe portare al collasso il settore bancario italiano o, per meglio dire, quello europeo? E la risposta è affermativa: il fallimento dei debiti sovrani dei Paesi periferici dell’Unione monetaria europea (che includono Italia e Spagna). Questa risposta implica che, se c’è un’emergenza bancaria, questa va affrontata sul piano europeo e non solo italiano. In parte, è quello che la Bce di Mario Draghi sta facendo con un’offerta illimitata di liquidità a favore del settore bancario europeo a tassi dell’interesse molto bassi (lo 1%) e a fronte di garanzie molto eterogenee.
FIRSTONLINE – Purtroppo non pare che l’abbondante liquidità vada a vantaggio dell’economia reale o a sostegno del debito pubblico. E poi non scordiamoci che le banche devono fare i conti con la pesantissima richiesta di ricapitalizzazione lanciata dall’Eba.
MESSORI – E’ vero che siamo in una situazione di emergenza che spinge a ragionare nei termini di “à la guerre comme à la guerre”. Non credo, però, che il dirigismo sia la migliore delle vie d‘uscita. Semmai, bisognerebbe chiedersi perché le istituzioni europee intervengano sugli effetti e non sulle cause della crisi. In particolare, perché la Bce possa tutelare la liquidità del settore bancario ma non intervenire sulla fonte del rischio bancario: i corsi dei titoli pubblici dei Paesi periferici. Quanto alle decisioni dell’Eba, è ovviamente lecito discutere criticamente i tempi e i modi delle sue richieste di ricapitalizzazione al settore bancario europeo. Non si può però dimenticare che, a inizio estate 2011, l’Eba era stata criticata proprio perché aveva effettuato stress test sul settore bancario europeo senza attribuire rischi ai titoli pubblici detenuti nei bilanci bancari in forma stabile; e che, quando ha preso in considerazione l’opportunità di passare a una valutazione di tali titoli ai prezzi di mercato, ha sottoposto la proposta al Consiglio europeo. Nel luglio 2011 tutti i governi dell’Unione europea, compreso il governo Berlusconi, approvarono tale proposta.
FIRSTONLINE – Ci vorrebbe un piano bazooka che metta a disposizione dell’Europa mezzi illimitati per affrontare il rischio sovrano e sostenere il debito pubblico dei Paesi più esposti ma la Bce non è la Fed: come se ne esce?
MESSORI – Continuo a pensare che il veicolo, più adatto per gestire il problema del debito pubblico dei Paesi in difficoltà, sia il fondo salva-Stati. Si tratta, però, di dotare tale fondo di mezzi potenzialmente illimitati e di evitare che il suo tasso di indebitamento pesi sui bilanci pubblici dei singoli Stati-membri. E’ possibile raggiungere ambedue i risultati senza alcuna revisione dei Trattati. Si tratta semplicemente di modificare lo statuto del fondo salva-Stati, trasofrmandolo in una banca. In quanto banca, come tutte le altre banche europee, questo fondo avrebbe un accesso illimitato ai finanziamenti della Bce. Sono convinto che, se si procedesse in questa direzione, non sarebbe neppure necessario un effettivo finanziamento della Bce: basterebbe l’effetto annuncio per indurre i mercati a cambiare la scommessa sulla tenuta dell’euro.
FIRSTONLINE – E la signora Merkel chi la convince? Basteranno i nostri due SuperMario?
MESSORI – Qui siamo di fronte a quello che gli economisti chiamano un problema di incoerenza temporale. E’ ragionevole aspettarsi che, una volta accertato che il nuovo Trattato realizzi il cosiddetto “fiscal compact” e metta sotto controllo tedesco i bilanci pubblici dei vari Paesi dell’eurozona, anche la Germania accetti soluzioni ragionevoli per affrontare il rischio sovrano: un potenziale finanziamento illimitato della Bce al nuovo fondo salva-Stati nel breve periodo, l’emissione di eurobond nel medio-lungo periodo. Il problema è capire se questo avverrà in tempo per salvare l’euro. Il timing è decisivo; e il rischio che il sistema salti per incoerenza temporale non è piccolo. La saggezza e la credibilità europea di Mario Monti e di Mario Draghi lasciano ancora sperare in un lieto fine rispetto all’incubo di questi giorni. Ma quanta inutile e dispendiosa fatica…